SU KABUL

 

DI GIUSEPPE FARINA


                                                                                




Dino Meneghin a Kabul, ossia il problema ricorrente che assilla chiunque debba scegliere il titolo ad un articolo che si appresta a pubblicare: perché in un soprassalto di inconsapevole ironia chi scrive aveva pensato di optare a favore del ricorso all’espressione iniziale per intitolare il proprio pezzo. Vi state chiedendo quale sia la relazione del celeberrimo cestista lombardo con i tragici avvenimenti afgani? Probabilmente i lettori più acuti lo avranno già intuito: Meneghin, dall’alto della sua leggendaria carriera sportiva, ha indubitabilmente rappresentato il miglior pivot della storia della pallacanestro italiana e tale idea di pivot suggerisce il riferimento ad un altro concetto in cui si parla di pivot, vale a dire quello dell’area pivot espresso da quell’Harold MacKinder che ha inspirato la denominazione di questo blog e che tratta in misura prevalente le dinamiche dell’heartland nel quale va sicuramente ricompreso il territorio dell’Afghanistan, al centro delle convulse vicende di queste ultime ore.

E comunque l’utilizzo di un minimo di sana ironia si rende certamente necessario per poter esporre il proprio giudizio in merito alle tumultuose circostanze che vedono protagonisti i Talebani ed una Nazione che ormai da quarant’anni è squassata da guerre e lotte intestine interminabili, dato che di norma la valutazione geopolitica presuppone tempistiche alle quali ben difficilmente si può pensare di sfuggire e l’analisi ad essa correlata dovrebbe abitualmente avvenire, per così dire, a freddo e, quindi, allorquando un intervallo temporale sufficientemente congruo intercorra dalle situazioni da sottoporre a valutazione; tuttavia, com’è intuibile, il clamore di quanto verificatosi a Kabul e nell’intera regione afgana nonché la grancassa mediatica seguita allo stesso costringono ad un’ineludibile eccezione alla quale lo scrivente non si sottrae. Dunque, cos’è realmente accaduto in Afghanistan? I commenti espressi dagli organi di informazione rappresentano un coro unanime di condanna all’indirizzo dell’Amministrazione Biden colpevole di un rovescio militare catastrofico e vieppiù persino di una fuga tanto precipitosa da far apparire quella che avrebbe dovuto essere la normale conclusione di una spedizione bellica alla stregua di una vera e propria rotta di un esercito che cerca una qualunque via di scampo di fronte all’avanzata del nemico: si tratta di considerazioni concrete e largamente condivisibili, ma che tradiscono la consueta indulgenza dei mass media nei confronti di un Presidente USA e di una classe politica al potere giudicata amica ed affine da coloro che dovrebbero identificare i cosiddetti cani da guardia del Potere – oggi derubricati invece ad autentico braccio armato del medesimo – laddove essi circoscrivono, consapevolmente o meno, la loro analisi all’aspetto prettamente politico e militare, così da omettere quella che dovrebbe costituire il giudizio più importante, ossia quello geopolitico; nonostante questo tentativo di “ovattare” l’onda sonora giunta dall’Afghanistan, la sensazione tra giornalisti, analisti e politici rimane enorme e la presa di coscienza della gravità dell’accaduto amplissima presso l’opinione pubblica. Forse soltanto l’incendio di Washington del 1805 appiccato dalle truppe inglesi a conclusione di un blitz punitivo condotto nei riguardi dell’ex colonia ribelle può fornire un adeguato termine di paragone con la situazione presente.

Per rendersene conto, però, occorre tornare indietro di venticinque anni circa e quindi al periodo dell’euforia neoliberista in un mondo dominato da un’unica superpotenza nel quale circola, esaltata dagli organi di informazione, la teoria di Fukuyama, dato che proprio in quegli anni è stata formulata un’altra teoria, che ha raccolto una visibilità non paragonabile con quella della fine della Storia, ma che alla luce di quanto successivamente avvenuto si è dimostrata di gran lunga assai più preveggente di quella dello studioso americano di origine nipponica: si tratta, infatti, dell’elaborazione avanzata da Euvgeniy Primakov, all’epoca Ministro degli Esteri di una Russia segnata da un’anarchia dilagante, ma nella quale cominciavano a germogliare i semi della riscossa nazionale, sorretta da una lucidità strategica che nel corso dell’ultimo ventennio si è rivelata decisiva nel rinnovato confronto fra Mosca e Washington; in particolare, Primakov, oggi scomparso, precorre, nella sua elaborazione, le difficoltà che gli USA, nel florilegio di tensioni internazionali che inesorabilmente emergeranno nel mondo post-sovietico, si troveranno ad affrontare e vieppiù intuisce le contraddizioni insanabili insite nell’organizzazione di un’economia neoliberale e governata da una pattuglia di giganti finanziari, a loro volta emanazione di un Deep State già visibile in controluce, che si apprestavano ad imporre un’oppressione nei confronti dei popoli del Pianeta dissimile nelle forme da quella conosciuta all’interno dei Paesi membri del Patto di Varsavia, ma probabilmente analoga nel contenuto e persino peggiore da un punto di vista complessivo in rapporto a quella dei regimi comunisti. La proposta dell’allora Ministro degli Esteri russo si imperniava di conseguenza sull’avvento a livello globale di un regime internazionale multilaterale e di un’organizzazione finanziaria che conservasse un’economia mista basata sulla tutela dell’interesse sociale e sulla partecipazione congiunta pubblico-privato. 

Come detto, all’analisi di Primakov non seguì una grancassa mediatica tale da amplificare la portata di questa teoria, che a quel tempo, con il comunismo appena estirpato, doveva con ogni probabilità apparire bislacca o peggio, ma di certo non passò inosservata in quel di Washington che anzi verosimilmente accolse con inquietudine un’idea che contestasse alla radice la prospettiva con la quale gli Stati Uniti volevano disegnare il Pianeta; dunque, l’allarme suscitato da considerazioni che andavano a cozzare direttamente con i propositi USA non potevano non provocare una reazione da parte dei vertici politico-militari in America così da indurre Casa Bianca e Pentagono a studiare una risposta che seguisse una duplice direttiva, laddove, da un lato, si puntò ad uno sviluppo della tecnologia bellica tale da assicurare un primato americano negli armamenti strategici che riducesse a più miti consigli qualunque proponimento revanscista proveniente dalla Russia; dall’altro, si intraprese un piano avente natura più strettamente geopolitica con il ricorso ad una previsione fondata sull’allestimento di una vera e propria cintura di contenimento da stringere attorno al territorio della Federazione russa, tanto da poter arrivare al punto di effettuare un, per così dire, strangolamento del governo di Mosca e giungere, una volta per tutte, al redde rationem con l’atavico nemico russo. Pertanto, già alla fine dell’Amministrazione Clinton, il Congresso USA fu persuaso ad approvare lo stanziamento, sollecitato dalla Casa Bianca, di un finanziamento pari a  mille miliardi di dollari che avrebbero condotto al completamento del cosiddetto sistema Aegis, ossia lo scudo stellare precedentemente ipotizzato già con la presidenza Reagan; tuttavia, l’attività saliente intrapresa dagli Stati Uniti verteva sull’azione geostrategica, da cui prese le mosse l’esecuzione di un progetto che prevedeva sia di rovesciare regimi di Paesi che non fosse stato possibile arruolare alla propria causa, sia nel contempo di cooptare quelle Nazioni maggiormente malleabili da trascinare nel campo americano con una sapiente alternanza di blandizie e minacce. Quindi, a partire dal 2001 l’opinione pubblica internazionale assiste all’assunzione di una serie di iniziative statunitensi, prese sulla base di contingenti e apparentemente diverse circostanze, che abbattono i governi al potere in Afghanistan e Iraq, mediante l’invio diretto di truppe USA, e poi  scatena la guerra per procura in Siria e parzialmente in Libano; nello stesso arco temporale, Washington esercita un peso crescente nelle vicende delle ex Repubbliche sovietiche, specialmente in quelle che sembrano più vulnerabili: in proposito, basti ricordare la telefonata fatta dallo scomparso senatore MacCain al Presidente del Kirghisistan, quasi vent’anni fa, in cui l’allora membro del Congresso statunitense paventava conseguenze gravissime per il Capo dello Stato kirghiso e per la sua famiglia qualora non avesse prontamente ceduto ai voleri americani. Ma il piano degli USA prevede letteralmente di circondare la Russia e da tale accerchiamento non può conseguentemente prescindere l’Europa, che vede l’esordio della stagione delle rivoluzioni “colorate” in Georgia, due volte in Ucraina e, infine, proprio lo scorso anno di questi tempi, la sortita in Bielorussia per deporre Lukashenko; com’è ovvio, per brevità di narrazione non è possibile né sarebbe utile procedere ad una ricostruzione di una sequela di situazioni che hanno scandito l’evolvere degli eventi nell’ultimo ventennio, ma è indispensabile rimarcare come gli Stati Uniti abbiano profuso uno sforzo inimmaginabile per attuare questi disegni in un intervallo temporale assai lungo che avrebbe sfiancato ben prima qualsiasi altra Nazione sul Pianeta  arrivando, in tal modo, quasi ai giorni nostri. All’inizio dello scorso anno, Mosca comincia la produzione di una nuova e significativa serie di armamenti strategici comprendenti missili ipersonici, subsonici ma invisibili e numerose altri dispositivi anche navali, sottomarini o con IEM che vanificano del tutto la strategia di supremazia USA negli armamenti nucleari e non è difficile ipotizzare quale scoramento possa aver sopraffatto i vertici militari al Pentagono, allorquando un intero progetto bellico-tecnologico pensato e sostenuto per più di vent’anni si sia rivelato completamente errato fin nei suoi presupposti teorici; tuttavia, è la strategia geopolitica ad aver arrecato la più cocente delusione nelle fila americane: in Iraq la maggioranza della popolazione locale è sciita e non appena ad essa è concessa l’opportunità di tenere libere elezioni il Paese esprime un esecutivo filoiraniano e lo Stato iracheno va a gravitare nell’orbita di Teheran. Gli Stati Uniti riescono nel capolavoro di trasformare l’Iran nella Potenza egemone del Medio Oriente. In Siria, se possibile le cose vanno anche peggio perché la lotta contro l’ISIS diviene il più brillante successo geopolitico e militare di Putin nel suo lungo periodo alla guida del governo russo; in Ucraina, l’avvento di un regime filoccidentale in funzione antirussa mostra ormai apertamente la corda: la situazione sul campo è catastrofica, l’economia locale spogliata e annientata e l’intero Stato ucraino a serissimo rischio di disintegrazione territoriale. In Bielorussia, gli apparati di potere, probabilmente ben consci di quanto avvenuto nella vicina Ucraina rimangono fedeli a Lukashenko e quest’ultimo resta saldamente al proprio posto.

In questo coacervo di situazioni, si innesta la vicenda afgana che ha segnato l’inizio ed il culmine di un incredibile sforzo profuso dagli Stati Uniti in un arco temporale pluridecennale tale da concedere a Washington, nelle intenzioni dei suoi fautori, il dominio del mondo, ma le cose sono andate nel peggiore dei modi: gli USA hanno, infatti, smarrito la supremazia bellica a favore della Russia, che può attingere oggi ad un arsenale navale, aereo e spaziale superiore a quello americano e che in futuro progredirà ulteriormente laddove Mosca allestisse uno scudo stellare, tramite un’integrazione, basata sull’AI, delle batterie antimissilistiche di diversa generazione a sua disposizione; ha ceduto il primato economico alla Cina, facendo della propria industria manifatturiera un gentile cadeau per Pechino e, infine, ha compromesso il primato morale, determinante all’epoca della Guerra Fredda, in conseguenza dell’introduzione di Green Pass e politiche concepite per comprimere spazi democratici, ridurre diritti e, ove necessario, revocare libertà costituzionalmente garantite. A Washington, governa un uomo afflitto da evidenti problemi, la classe politica americana è stata divorata dall’interno dal Deep State e la corrosione del tessuto sociale e istituzionale è senza precedenti. 

L’Afghanistan ed il ritiro precipitoso delle truppe USA riassumono e simboleggiano questa intera vicenda che, proprio per questo motivo, suggerisce inquietanti paralleli storici e le foto degli elicotteri americani che volteggiano per l’ultima volta nei cieli di Kabul sono lì a testimoniarlo. 


Commenti

  1. Articolo di spessore con pregevoli passaggi in focus e valutazioni su riflessi tra passato e presente, già storico, con ipotesi d'interesse sul futuro probabile andamento degli assetti geopolitici mondiali.

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