Russia-Turchia: battaglia su tre Continenti

 

DI GIUSEPPE FARINA 


                                            



Con baffi dallo stile vagamente retró l’uno, con il tratto somatico inconfondibilmente asiatico tipico di molti Russi l’altro; accomunati anzitutto da espressioni facciali che raccontano in modo esaustivo i tragitti esistenziali ancor prima che politici dei due personaggi principe dei rispettivi Paesi ma separati dalle prospettive perseguite ai vertici dei governi che sono entrambi chiamati a presiedere nella conduzione degli affari di Stato. Chi scrive si domanda se sia possibile adoperare talune categorie freudiane onde poterle declinare dal punto di vista geopolitico: qualora questo fosse possibile, si potrebbe infatti decifrare con congruo anticipo molti degli orientamenti espressi in ambito internazionale da tante Nazioni, ma quantunque in una certa misura l’azione di governo di Russia e Turchia rifletta taluni tratti distintivi del carattere spigoloso di tali leader - freddo, lucido e spietato quello del Capo di Stato russo; impulsivo, impetuoso e irruento invece il Presidente turco - la psicologia non esaurisce la poliedricità della lotta geopolitica condotta in territori talvolta decisamente distanti tra essi né le eterogenee sfumature colte nei volteggi della diplomazia in relazione alle situazioni più disparate. Ciò nondimeno, un filo comune sembra legare le iniziative salienti tanto di Putin quanto di Erdogan nelle loro carriere di statisti, laddove nel primo occorre soprattutto esaltare la capacità di prevenire le mosse “nemiche” sullo scacchiere geopolitico derivante da un’infanzia alquanto turbolenta nella natia San Pietroburgo (in proposito celebre un motto ricordato dallo stesso Putin espresso in relazione alle, per così dire, lezioni apprese sulla strada: ”se non puoi evitare la rissa, colpisci per primo”); nell’altro, l’impegno profuso nel corso di un’intera esistenza a promuovere la rinascita di una compagine statuale da proporre quale legittima erede della tradizione e della grandezza ottomane rappresenta la cartina da tornasole di una vita spesa nel riscatto sociale a partire dai lavoretti da bambino - a vendere soprattutto limonate sul marciapiede - e declinata nel pensiero politico maturato nel culmine della propria avventura istituzionale (“la democrazia è un prodotto della cultura occidentale e non può essere applicata al Medio Oriente, che ha un diverso background culturale, religioso, sociologico e storico”, l’espressione riepilogativa del suo incipit programmatico). 

Le prospettive perseguite dai questi due leader non potevano, com’è noto, non condurli ad incrociare le loro strade e, in più di un’occasione, da un lato, a scontrarsi in aree geografiche disseminate su tre differenti Continenti, ossia Africa, Asia e Europa; dall’altro, a sfruttare le convenienze contingenti per trarre reciproci vantaggi: quest’ultime si sono essenzialmente tradotte in una serie di accordi che hanno concesso preziose forniture ad Ankara, quali, in primo luogo, la realizzazione del cosiddetto Blue Stream, vale a dire il gasdotto che assicura un economicamente conveniente flusso di gas naturale alla Turchia specialmente in considerazione degli attuali costi di produzione e alla Russia un mercato foriero di una sempre maggiore diversificazione degli sbocchi per le proprie fonti di energia e materie prime; in secondo luogo, la vendita dei celeberrimi S-400, ovvero le efficacissime batterie missilistiche antiaeree, tanto temute in Occidente da indurre il Pentagono a estromettere le Forze Armate turche dal programma di acquisto degli F-35 nel timore che i dispositivi di contraerea russa potessero saggiare le capacità avioniche del velivolo USA compromettendone la tecnologia schermante dai radar. Inoltre, c’è da menzionare la costruzione ancora in corso di una centrale nucleare da parte di ROSATOM, ossia dell’organismo istituzionalmente deputato nella Federazione Russa allo sviluppo e gestione dell’elettricità generata dall’atomo che, da un lato, concede alla Turchia l’utilizzo di una fonte di energia tornata in auge specialmente a seguito delle indicazioni tracciate al termine del Cop26; dall’altro, assicura a Mosca l’esercizio di un peso preponderante nell’orientamento delle scelte strategiche turche in un settore, come quello energetico, propedeutico alla crescita economica complessiva dell’Asia minore e in assoluto negli indirizzi di medio-lungo termine del governo turco. 

Ma accanto agli ambiti di collaborazione e partenariato molteplici e reciprocamente proficui, l’ultimo ventennio ha condotto ad un florilegio di contrapposizioni e tensioni sottocutanee talora esplose in tutto il loro fragore, dal momento che il confronto tra il Cremlino e Ankara si snoda essenzialmente in quattro macroaree di vitale interesse per entrambi i Paesi: quella forse più importante e dove i contrasti bilaterali possono favorire un rapido inasprimento delle relazioni anzitutto diplomatiche verte in Siria, allorquando al culmine della stagione delle cosiddette "Primavere arabe” imposte dagli USA della prima Amministrazione Obama i governi occidentali promossero apertamente la sollevazione delle popolazioni di fede sunnita allo scopo di rovesciare il regime pluridecennale degli Assad e rimuovere dal proscenio internazionale l’ultimo baluardo di quello che un tempo fu il socialismo arabo da sempre profondamente avversato in quel di Washington; del resto, la strategia occidentale di promuovere l’avvento al potere, in una regione di centrale importanza quale quella a tutt’oggi guidata da Damasco, di un Califfato sotto il controllo dell’ISIS, dunque assai più malleabile all’interferenza soprattutto americana,  coincideva in quel periodo specularmente con le mire espansionistiche turche, contrassegnate quest’ultime dapprima dalla “Profondità strategica” teorizzata da Ahmet Davutoglu e poi dal “Mavi Vatan” concepito da Cem Gurdeniz. In particolare, la crisi della compagine siriana offriva in primo luogo la chance di dare concreta attuazione ad una linea strategica fino a quel momento soltanto abbozzata a livello teorico e in secondo luogo concedeva alla Turchia la prospettiva di dirimere forse persino in modo definitivo la “Questione Curda”: per Ankara risultava indispensabile giungere alla creazione di una zona “cuscinetto” in territorio siriano onde sottrarre alla resistenza curda sul suolo turco quella formidabile retrovia che nei decenni scorsi aveva sempre assicurato alla popolazione curda un retroterra necessario alla pianificazione e realizzazione delle proprie attività volte a promuovere la  causa nazionalistica; tuttavia, la reazione russa, tesa a proteggere i propri interessi vitali nell’area ( la conservazione delle basi militari a Tartus e Latakia) e inevitabile in seguito al collasso dello Stato siriano peraltro a fronte di un’aggressione simultanea da più parti dapprima non mancó di suscitare la protesta stizzita di Erdogan, ma poi il repentino rovesciamento dell’inerzia bellica indusse il presidente turco a più miti consigli cercando in omaggio alla rigorosa osservanza della realpolitik una sistemazione del relativo quadro regionale con una serie di incontri al vertice a Mosca e successivamente nel cosiddetto “Processo di Astana”. 

Il confronto russo-turco in Asia non si esaurisce nell’ambito della questione siriana, ma principalmente nel corso dell’ultimo biennio ha investito anche il Caucaso tanto da rinvenire il proprio culmine nella guerra combattuta lo scorso anno tra Armenia e Azerbaigian, laddove Ankara coltiva ormai apertamente l’aspirazione a ripristinare la plurisecolare egemonia ottomana sottratta con l’espansione russa nell’area a seguito dell’intervento bellico zarista nel diciannovesimo secolo: in particolare, con la conflagrazione tra Yerevan e Baku, Erdogan, che nei mesi antecedenti i combattimenti non aveva mai mancato in prima persona di alimentare appositamente il revanscismo azero nei confronti del governo armeno, mirava, onde declinare in termini di concretezza il recupero di un potere egemonico nella regione e nella prospettiva di un suo successivo consolidamento, alla realizzazione di un collegamento ferroviario ad alta velocità attraverso il cosiddetto corridoio di Lachin (cui guardavano con malcelato interesse anche Cina e Germania per disporre di un transito scevro dall’esigenza di attraversare lo sconfinato territorio russo) per ottenere il quale però occorreva una completa riconquista del territorio controllato dall’Armenia al termine della prima guerra fra i due Paesi da parte delle truppe azere; in realtà, a dispetto dei rilevantissimi sforzi profusi dalla Turchia al fianco del proprio alleato azero, il Caucaso si è rivelato teatro dell’ennesimo capolavoro putiniano. Il negoziato di pace vide Lavrov quale assoluto protagonista mentre Ankara non è stata nemmeno invitata alle trattative, dato che in buona sostanza pure Baku, malgrado il rapporto sempre più organico con la compagine turca, non sembrava affatto ansiosa di permettere ai vertici politico-militari turchi di venire a comandare in casa propria; dunque, il conseguente trattato di pace si concludeva non soltanto prescindendo dal recupero del corridoio di Lachin, che avrebbe assicurato contiguità territoriale ai due Stati, ma la Russia senza sparare un solo proiettile diveniva la Potenza dominante mediante soprattutto il dispiegamento del contingente di peace-keeping formato dapprima da un migliaio di unità e, dopo alcuni tentativi dei reparti speciali turchi di conquistare taluni choke-point, ampliato fino a comprendere oltre 5000 regolari. La dislocazione di truppe russe in quel fazzoletto assume una valenza essenziale per prevenire un’ulteriore precipitazione degli eventi, dato che seppure formalmente soggiacente alla sovranità armena, il corridoio di Laschin è di fatto sotto il controllo iraniano: Teheran ha infatti costruito una diga che ha completamente inondato la vallata in cui dovrebbe passare la ferrovia ad alta velocità; pertanto, la vigilanza di Mosca in quel territorio conviene a tutti gli attori coinvolti, nonostante la Turchia pare non aver alcuna voglia di mollare la presa (come attesta la recentissima inaugurazione del Parco Dudaev nella città turca di Korfez quale eroe dell’irredentismo caucasico). 

L’altro Continente attraversato da carsiche tensioni fra Mosca e Ankara è certamente l’Africa anzitutto all’interno della Libia: com’è noto, la caduta di Gheddafi ha concesso al governo turco l’inopinata opportunità di ripristinare la propria egemonia in una regione sulla quale aveva smarrito ogni influenza alla fine della guerra italo-turca del 1911-12, ma il territorio libico da ormai un decennio rappresenta oggetto di contesa internazionale fra grandi Potenze ed in tale competizione egemonica non poteva certo mancare il Cremlino, sebbene le ragioni dell’attivismo russo in Nord Africa appaiano talora sfumate; a tal proposito, in primo luogo, bisogna menzionare la cosiddetta strategia dei “mari caldi” derivante dalla necessità della Russia di installare basi militari che concedano a Mosca la prerogativa di poter contare su punti di appoggio affidabili per mettere in comunicazione lo sterminato territorio russo con il resto del Pianeta. In secondo luogo, c’è sicuramente la partita del petrolio e la presenza russa in Cirenaica consolida il peso preponderante esercitato da Mosca all’interno del formato OPEC + né si può dimenticare la prospettiva nel medio e lungo termine di costruire una base militare a Bengasi o dintorni che costituirebbe un’autentica spina nel fianco della NATO eventualmente risucchiata in un ulteriore sforzo teso a proteggere il proprio fronte Sud; tuttavia, nel complesso, l’intervento del Cremlino in Libia sembrerebbe rientrare nella strategia delineata da Mosca per l’intera Africa, ossia quella di massimizzare la propria presenza mediante la definizione di una serie di accordi da cui trarre massimo vantaggio: non potendo emulare la politica cinese fondata su di una prospettiva di massicci investimenti e finanziamenti infrastrutturali, con cui Pechino gradualmente favorisce la cooptazione di singole Nazioni nell‘ambito della propria area egemonica, la Russia ha stipulato svariati trattati volti a prevedere lo sfruttamento di risorse locali congiuntamente con gli Stati contraenti, favorendo l’afflusso di fonti di energia e materie prime verso porti controllati da autorità russe o comunque un ritorno economico significativo in relazione agli investimenti compiuti.

 Ad oggi, la Libia rimane un Paese del tutto sconvolto né si intravedono soluzioni all’orizzonte, specialmente dopo che lo scorso anno le milizie filo-turche, con ogni probabilità supportate anche da mezzi NATO, hanno preso il sopravvento nel controllo di numerose infrastrutture petrolifere. 

Mentre nel resto d’Africa non sembrano emergere ulteriori elementi di attrito, con la Turchia che stringe rapporti particolarmente intensi con l’Etiopia, un ultimo Continente vede proseguire lo scontro fra Mosca e Ankara, vale a dire l’Europa e nello specifico in un Paese quale l’Ucraina attualmente al centro di tutti i dibattiti politici: riguardo la controversa situazione a Kiev, chi scrive rimanda il lettore al precedente articolo pubblicato su questo blog, almeno per quel che concerne gli interessi del Cremlino; in merito alle aspirazioni del governo turco, la questione è certamente più sottile, laddove Ankara ha da tempo iniziato una penetrazione in Ucraina mediante importanti finanziamenti di centri culturali e religiosi per esercitare un peso crescente nella società ucraina, ma sullo sfondo rimane il futuro dello Stato ucraino che potrebbe, per le ragioni giá esposte su questo blog, condurre ad un’implosione foriera di successive spinte centrifughe. La Turchia appare interessata esattamente ad un epilogo di questo tipo da cui potrebbe ricavare anche una porzione notevole di territorio oggi controllato da Kiev, sotto la protezione della Nato soddisfacendo così le proprie ambizioni espansionistiche. Quale sarà l’esito di tali molteplici confronti? Difficile a dirsi.In assoluto, differisce la postura dei due Paesi: a Mosca emerge, probabilmente nella consapevolezza dell’onerosità di dover sopportare uno sforzo particolarmente ingente vista la portata amplissima del confronto in atto, la tendenza a prediligere una sistemazione complessiva delle contese in essere così da porre fine od almeno ridurre una competizione inequivocabilmente logorante nel lungo termine; Ankara invece assume sempre atteggiamenti spregiudicati se non apertamente aggressivi e allorquando si è fermata a definire accordi o concludere negoziati che non prevedessero la propria supremazia in una specifica area lo ha fatto per esigenze puramente tattiche. 

In definitiva, all’apparenza tra i due Stati sembrerebbe non esserci partita: la Russia è infatti un player globale ed è superiore alla Turchia dal punto di vista politico, geopolitico, economico, militare e tecnologico con potenzialità straordinarie sostanzialmente inespresse in ogni ambito, mentre Ankara rappresenta di fatto una Potenza regionale per giunta alquanto fragile che soffre lacerazioni interne devastanti e poggia su di un’economia dipendente sia dalla politiche monetarie adottate dalla Federal Reserve, sia dai cospicui finanziamenti erogati dal Qatar specialmente in occasione delle ormai frequenti speculazioni finanziarie sui mercati valutari nei riguardi della Lira turca; tuttavia, la Turchia dispone di almeno un paio di frecce nella propria faretra nel confronto con la Russia. Da un lato, la sempre paventata costruzione del Canale di Istanbul, che vanificherebbe il contenuto della Convenzione di Montreaux e aprirebbe il Mar Nero ad un afflusso incontrollato di unità navali da combattimento appartenenti agli USA ed ai suoi alleati che andrebbe a costituire un problema enorme per Mosca non potendo più contare su di una copertura difensiva efficace lungo il proprio fianco meridionale; dall’altro, Ankara non manca mai di porre in rilievo il legame organico instaurato negli ultimi anni con le repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale e complessivamente con tutte le popolazioni di etnia turcomanna disseminate anche all’interno della stessa Federazione Russa tanto da agitare lo spettro di un possibile scisma sociale nel cuore della società russa che potrebbe spaccare l’unità di una popolazione coesamente multietnica qualora la tensione con la Turchia dovesse raggiungere il livello di guardia: Erdogan mira infatti a ripetere sul suolo russo il medesimo schema già numerose volte osservato qui in Europa e specificatamente in Germania, allorquando ogni volta che l’UE adotta qualche provvedimento lesivo dell’interesse di Ankara gli oltre sei milioni di Turchi facenti parte del tessuto sociale teutonico puntualmente esercitano una pressione fortissima su Berlino costringendo a sua volta la Commissione europea a dei bruschi dietrofront nelle proprie risoluzioni. Basteranno però queste due cartucce per competere con il gigante russo? 


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