L’Ucraina nel post-totalitarismo globale
DI GIUSEPPE FARINA
Bella horrida! La guerra è orribile: conceda il lettore a chi scrive la facezia di prendere le mosse con una citazione di Virgilio, il quale rievoca nelle sue parole eterne l’orrore e gli sconvolgimenti di una conflagrazione bellica, ossia quella che sembrerebbe poter avvenire oggi al duplice confine fra Ucraina e Russia facendo quindi riferimento tanto alle martoriate repubbliche di Lugansk e del Donbass quanto alla penisola di Crimea. Ed in effetti nelle scorse giornate l’opinione pubblica ha appreso dall’autorevole (un tempo) Washington Post come l’antidemocratico (?) governo russo abbia ormai accumulato in una serie di località distanti circa 200 Km dalla frontiera russo-ucraina un contingente militare attualmente stimabile attorno alle 180000 unità pronte in qualunque momento ad invadere la limitrofa ex repubblica sovietica: tutto questo prescindendo dal precisare come anche la controparte ucraina disponga di un significativo schieramento combattente attivo nella medesima regione dall’inizio della crisi bilaterale tra Mosca e Kiev; dunque, in virtù di tali considerazioni nonché in base alla ben nota - per gli organi di informazione occidentali - natura infida dei governanti russi, non si può non trarre la conclusione dell’assunzione di un’imminente iniziativa bellica da parte del Cremlino onde occupare il territorio da sempre appartenuto all’ambito geopolitico di ogni entità statuale succedutasi in quell’area d’Europa dai tempi del Principato di Novgorod. A questo punto, l’ineludibile domanda del lettore: ma le cose stanno realmente così? Com’è facile intuire, la risposta ad una siffatta questione non è mai univoca; per poterla fornire occorre abbozzare un rapido riepilogo della storia della recentissima Nazione ucraina, storia che conosce il proprio avvio a seguito della disgregazione dell’Unione Sovietica e della contestuale proclamazione dell’indipendenza di Kiev della quale ricorre quest’anno il trentesimo anniversario: al momento del distacco da Mosca, l’Ucraina contava una popolazione stimata attorno ai 50 milioni di abitanti, il reddito pro capite era superiore a quello riscontrato dalla quasi totalità degli altri Stati fuoriusciti dall’esperienza comunista, seppure non in una misura particolarmente rilevante, e l’economia ucraina soprattutto, malgrado la distanza notevolissima che la separava dal poter assicurare alla propria comunità il tenore di vita occidentale, vantava comunque taluni gioielli, nel comparto dell’imprenditoria aerospaziale, dell’industria estrattiva e ancor più nella produzione agricola, tanto da suscitare gli appetiti dei principali competitors operanti nei medesimi settori economici. Com’è noto, gli anni successivi alla caduta del Muro di Berlino condussero gli Stati ex membri del Patto di Varsavia su percorsi radicalmente diversi, laddove i Paesi mitteleuropei, avvantaggiandosi degli impegni disattesi dall’Occidente e in particolare dagli USA di non espandere la NATO e nel complesso la propria area egemonica verso Est, trassero enorme giovamento dalle delocalizzazioni attuate in quella che è stata definita la “ vecchia Europa” così da intraprendere uno sviluppo virtuoso dei propri tessuti economici e sociali che consentirono a queste Nazioni,secolarmente poste sotto il dominio di Potenze straniere, una nuova età di risveglio nazionale, fioritura socio-culturale e benessere sufficientemente diffuso; tuttavia, la stessa cosa non accadde ai Paesi rimasti nell’ambito di una più stretta integrazione con il Cremlino e, del resto, all’epoca ben difficilmente le cose sarebbero potute andare diversamente, dato che la stessa Russia eltsiniana viveva il periodo più drammatico della propria Storia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale: la transizione di tutte le repubbliche un tempo appartenenti all’Unione Sovietica fu retta da una serie di ex burocrati di alto livello precedentemente al potere all’interno del PCUS e in quel momento divenuti autocrati insostituibili nei propri Paesi di provenienza. Una situazione, quest’ultima, che se da un lato aveva contribuito a contemperare le tensioni che avrebbero potuto scaturire a seguito del collasso sovietico, dall’altro, pregiudicó la prospettiva a quell’area del mondo di seguire un analogo percorso di crescita come avvenuto con le ex consorelle comuniste, specialmente allorquando i gangli vitali dell’economia di ciascuno di questi Stati fu affidato ad oligarchi impegnati a perseguire il proprio smodato arricchimento personale assai più che il benessere collettivo; l’Ucraina in questo non fu differente dagli altri Stati ex sovietici ed anzi la situazione inizió a precipitare non appena gli Stati Uniti manifestarono la propria inequivocabile intenzione di cooptare anche Kiev nella propria schiera di Paesi vassalli: una volta terminata la rapida stagione della lotta al terrorismo islamico le Potenze occidentali hanno progressivamente esercitato una pressione crescente all’indirizzo del governo ucraino, dapprima con la rivoluzione “arancione” che però contribuí soltanto ad alimentare le lotte intestine al Paese con la dicotomia fra l’allora presidente Yuschenko e la pasionaria Timoschenko e poi, tornati alla guida dello Stato i filorussi con il politicamente diafano Yanukovich, mediante un cerchiobottismo alternante proposte di graduale integrazione con l’Occidente (abolizione dei visti e accordo di partneriato furono i grimaldelli propagandistici adoperati per la sollevazione di Euromaidan) con minacce di ritorsioni puntualmente seguite all’assunzione degli atteggiamenti oscillanti dell’Ucraina, soggiacente da un lato a un imperialismo euro-americano che stringeva il cappio al collo di un’economia annaspante fra sanzioni esterne e corruzione interna; dall’altro, alla necessità di non rompere il cordone ombelicale con un allora alleato quale Mosca fornitore di gas, petrolio, carbone, energia elettrica e finanziamenti direttamente provenienti dal Fondo Sovrano.
Quello che è accaduto a questo travagliato Paese dopo il 2014 è cronaca: i gioielli dell’economia finirono - consentiteci questa metafora - nel tritacarne conosciuto, nel gergo finanziario, del cosiddetto spezzatino e i settori improduttivi o con pesanti passività delle imprese aerospaziali confluirono in bad companies a carico della collettività mentre le parti sane furono cedute per un tozzo di pane ad un’esigua cerchia di oligarchi che nel volgere di pochi anni provvidero poi a loro volta a rivenderle con lautissimi profitti alla concorrenza cinese ( dimostrazione tangibile di come alla fine gli USA non sappiano nemmeno tutelare i propri interessi in tali fattispecie); la produzione agricola del Paese si è pressoché azzerata, mentre i territori un tempo noti, assieme a quelli russi, come i “granai del mondo” andarono ad ingrossare un latifondo già particolarmente cospicuo. Nel corso di questo 2021, la popolazione ufficialmente censita in Ucraina si attesterebbe al di sotto ( forse anche molto al di sotto) dei trenta milioni di persone.
E arriviamo così ai giorni nostri: l’Ucraina, per quanto sia doloroso affermarlo, non c’è più; quelli che sono rimasti hanno accettato di trasformarsi in “carne da cannone”, mentre, con l’avvento dell’Amministrazione Biden, Kiev è stata dapprima utilizzata alla stregua di una vera e propria esca atta a provocare un’invasione russa da brandire in un tardivo tentativo di boicottaggio relativo alla realizzazione del North-Stream 2 e ora contribuisce alle reiterate provocazioni attuate con un florilegio di sorvoli NATO lungo i confini russi nella contestuale cacofonia informativa che propaganda la prossima ammissione di Ucraina e anche Georgia all’interno dell’Alleanza Atlantica. Anche qui il lettore non può non porre conseguenti domande: perché sta avvenendo tutto questo e quanto è concreta la possibilità di una guerra? Come abbiamo già avuto modo di rilevare in precedenti articoli su questo blog, nell’attuale competizione globale fra i grandi players mondiali, occorre svolgere l’analisi geopolitica su un duplice piano, dato che da un lato risalta quella che potremmo definire la “punta dell’iceberg”, ossia la parte visibile del confronto USA-Russia che è possibile classificare nella dimensione di una tradizionale lotta egemonica tra due Potenze in competizione per l’affermazione di due ordini mondiali seccamente alternativi l’uno all’altro (consultare Multilateralismo vs unilateralismo); dall’altro, soccorre la nostra analisi la correlazione di ogni evento saliente negli angoli del globo con l’attività tentacolare posta in essere dal Deep State: sorprende infatti la pervicacia di quest’ultimo nella spasmodica ricerca di uno scontro con il Cremlino, proprio mentre la Casa Bianca tratteggia una trattativa fra soggetti apparentemente non comunicanti, come si può constatare dagli articoli apparsi su quei quotidiani che rappresentano il ventriloquo del Deep State. Il motivo si può facilmente rinvenire nella graduale riduzione degli spazi di democrazia in Occidente, riduzione resa possibile da un’emergenza sanitaria che però sembra volgere al termine (come confermato anche da recenti report) così da rendere indispensabile l’arrivo di nuove crisi legittimanti la compressione delle libertà fondamentali progressivamente erose dalle élites; dunque, NATO e Paesi occidentali hanno bisogno di un conflitto strisciante, forse di una vera e propria guerra per poter proseguire nel progetto che hanno intrapreso su input dei padroni del vapore.
In tutto questo c’è poi anche Putin: ad avviso di chi scrive, il Presidente russo potrebbe facilmente e rapidamente concludere la contesa con Kiev e i suoi alleati (a Mosca basterebbe chiudere i rubinetti di gas e petrolio per infliggere una batosta da cui i propri avversari non potrebbero riprendersi ma questo non pare essere l’obiettivo perseguito dal governo russo). Questa circostanza rende improbabile la guerra quale sbocco della crisi attuale, unitamente alla consapevolezza che l’invio di truppe regolari in Ucraina significherebbe percorrere una strada dalla quale non ci sarebbe poi ritorno; pertanto, il vecchio pirata russo, indipendentemente dall’ostentazione muscolare di quest’ultimo periodo, sollecita l’adozione dalla Nato di garanzie pattizie tese a prevenire la dislocazione di basi militari in prossimità del proprio confine. Si tratta di una prospettiva capace nel lungo-medio termine di rovesciare l’inerzia tra i due opposti schieramenti che concederebbe a Mosca la prerogativa di ricondurre gli ex Paesi satelliti nella propria orbita, pericolo peraltro non sfuggito alle cancellerie centro-europee che non hanno mancato di sollevare grandi rimostranze verso Washington. Un ultimo accenno meritano le Potenze regionali coinvolte, ovvero Polonia, Romania e Turchia: ognuna di esse esercita da tempo una propria area di influenza sul suolo ucraino e guarda bramosamente alla possibilità di un concreto smembramento del territorio di Kiev in modo da promuoverne il relativo accaparramento; oltre le dichiarazioni di solidarietà e reciproco supporto resta la misera cupidigia di Stati limitrofi pronti a camminare sul relitto di quello che dovrebbe essere un alleato: oggi come non mai Kiev è veramente sola.

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