Le origini dell’ossimoro economico in Russia: perché in Italia bisogna fare da soli

 DI GIUSEPPE FARINA 


                                          



Correva l’anno 2016 e nell’Amministrazione Obama aleggiava l’atmosfera tipica della cosiddetta Lame duck, ossia quella ben nota negli USA dell’anatra zoppa, allorquando l’inquilino della Casa Bianca ha già iniziato il rally degli ultimi due anni del proprio mandato presidenziale: nei corridoi vellutati della massima Istituzione statunitense, i faretti soffusi gettavano uno squarcio di luce che tagliava a metà una figura ignota alla grande massa della popolazione negli USA e non solo, ma non per questo conosciutissima e persino per un lungo tempo temuta nelle stanze di quell’antico edificio, sebbene in quel momento i segni dell’ età avanzata trasparissero in tutta la loro evidenza; i giornalisti presenti e gli astanti lo riconobbero immediatamente, malgrado egli avesse rarefatto le proprie apparizioni e gli interventi a pubblici eventi, dato che si trattava di un personaggio centrale delle vicende dell’ultimo mezzo secolo, era Brzezinski. Il Presidente USA, che all’epoca si poteva ancora considerare il leader dell’unica superpotenza mondiale nonché campione del mondo libero, aveva voluto concedere un commiato ad un uomo che aveva contribuito in modo determinante a segnare la sua avventura politica e, mentre si apprestava a varcare l’uscita da quel palazzo del potere che in passato tante volte aveva calcato, un giornalista riuscí a domandargli la motivazione di quella visita inattesa, giunta oltretutto alla conclusione dell’esperienza di un Capo di Stato che pubblicamente esprimeva la certezza di una propria rielezione qualora soltanto avesse avuto l’opportunità di un’ulteriore candidatura: Brzezinski, rinomato fra gli addetti stampa e gli esperti del Policy-making anche in virtù della sua proverbiale e talora brutale franchezza, fra le diverse battute, si lasció andare ad uno dei suoi tipici commenti senza filtri e dichiaró che, nel congedarsi dal Presidente Obama al termine del proprio impegno nell’analisi geopolitica, entrambi avevano dovuto constatare come il sogno a lungo coltivato di una sopraffazione definitiva della Russia fosse ormai tramontato e tale rovescio si era verificato a causa della Cina. A Pechino i governanti avevano disatteso l’impegno che si era collettivamente concordato anche con le Potenze europee e i Cinesi avevano infine rifiutato di ricoprire fino in fondo quel ruolo di junior partner che gli Stati Uniti avevano assegnato loro fin dalla caduta del Muro di Berlino.

Questa frase pronunciata da Brzezinski è illuminante per capire tutto un mondo che parte dall’avvento al potere di Vladimir Putin in Russia fino ai giorni nostri: alla fine del ventesimo secolo, gli USA, quali vincitori della guerra fredda, puntano a chiudere in via definitiva la partita con la Russia, assurta al rango di principale nemico nel contesto geopolitico mondiale fin dai tempi in cui Tocqueville nel 1835 pubblicó il suo testo più celebre, ossia quella “Democrazia in America” che preconizza con estrema lucidità la futura contrapposizione e l’inesorabile scontro tra i due Paesi nella conquista della leadership globale; dunque, la dissoluzione del Patto di Varsavia e la contestuale disgregazione dell’Unione Sovietica, nell’ottica statunitense di fine millennio, non possono non rappresentare che uno step propedeutico a quegli ulteriori passaggi che proprio Brzezinski ebbe modo di illustrare in un famoso saggio risalente al 1997, denominato “The Choice: Global Domination or Global Leadership”. Lo smembramento della neonata Federazione Russa in tre distinte Nazioni e la irreversibile subalternità al mondo occidentale e in particolare agli USA costituiscono quindi lo stadio conclusivo e vieppiú la garanzia per l’America di un successo con il quale plasmare il Pianeta in base alla teoria della Fine della Storia confacente i desiderata dell’Impero americano; del resto, nonostante il governo russo annoveri personaggi che già all’epoca vagheggiano un nuovo ed inedito equilibrio mondiale - su tutti il Ministro degli Esteri Primakov - il Cremlino vive in quel periodo l’ora più buia della propria Storia dai tempi dell’invasione svedese all’inizio del diciottesimo secolo e sembrano in tal modo sussistere tutte le condizioni per arrivare al coronamento del progetto di un mondo unipolare. Tuttavia, rimasta nell’oscurità, aveva continuato ad agire in Russia un apparato che esprimeva sia la corrente nazionalista e autenticamente patriottica della politica a Mosca, sia la prosecuzione della tradizione imperiale del Paese, vale a dire quella dei siloviki quale categoria di irriducibili difensori della Nazione che veglia su di essa: mentre un intreccio inestricabile di ricatti e lotte intestine pone termine al lungo interregno di Eltsin per suggellare l’ascesa di Putin, il piano congegniato a Washington, dietro perentori suggerimenti di Brzezinski, prende forma con la trasformazione della Cina nella “fabbrica del mondo”; Pechino, su precisi input provenienti dall’allora Amministrazione Clinton, assiste ad un afflusso inaudito di investimenti, beneficia gratuitamente della disponibilità di ogni brevetto nel campo tecnologico, trae enorme giovamento dall’ammissione al WTO e nel complesso appare come un formidabile pilastro di una sottile e strisciante strategia antirussa, sebbene poi i fatti si premuniranno di smentire queste fugaci premesse. A Mosca, Putin assiste a tale dinamica degli eventi e coglie subito la portata della minaccia in atto contro la Russia, così da intraprendere fin dall’esordio del suo percorso politico una serie di tentativi volti a disinnescare il pericolo costituito dalle delocalizzazioni in Occidente e dalla relativa finanziarizzazione dell’economia mondiale, in aderenza peraltro all’antico ma sempre attuale precetto machiavellico che impone di stringere alleanza con il proprio nemico, qualora non sia possibile batterlo: il Presidente russo, nel prendere le mosse nella politica internazionale, sonda reiteratamente la prospettiva di un’interlocuzione con i partner occidentali allo scopo di spezzare quello che appare un vero e proprio accerchiamento e dirottare il flusso gigantesco di risorse finanziarie indirizzate a Pechino; forse non tutti ricordano la richiesta nei primi anni del mandato putiniano di ingresso nella NATO o la prontezza del leader russo di arrivare per primo alla Casa Bianca subito dopo gli attacchi alle Torri Gemelle per esprimere solidarietà agli Stati Uniti e avanzare la proposta di una tacita intesa USA-Russia tesa a promuovere la tutela degli interessi del Cremlino nell’ambito della cosiddetta Unione Euroasiatica. Il piano di Putin è chiaro: in politica estera favorire la ricollocazione della Federazione Russa in un ruolo di centralità nella partita fra le grandi Potenze, in politica interna industrializzare la Russia sbarazzandosi con, si fa per dire, le buone (Khodorkovsky) e anche con le cattive - incluso l’omicidio - (Berezovsky) degli oligarchi in un repulisti che precorre molto da vicino quanto osservato ai giorni nostri con le iniziative assunte da Xi Jimping nei confronti dei miliardari cinesi onde prevenire la formazione di un reticolo di potere in grado di esercitare un peso preponderante nella gestione dello Stato; il governo russo ci prova, nazionalizza tutte le grandi imprese devolute per un tozzo di pane durante l’epoca eltsiniana, ripristina l’ordine interno e la gerarchia, ma si scontra con l’ostinata risolutezza americana a radicalizzare il confronto con Mosca e il progetto di Putin naufraga definitivamente con le rivoluzioni “rosa” in Georgia e “arancione” in Ucraina che deteriorano irrimediabilmente il dialogo tra Russia e USA: la strada dello sviluppo economico prende la via della Cina, mentre il Cremlino deve abdicare ai propri sogni di crescita di un tessuto imprenditoriale e Putin ricorre alla virtù che più lo ha soccorso nei lunghi anni al vertice della politica, quella del pragmatismo; dunque, il Presidente russo deve accettare un doloroso compromesso che pregiudica nell’immediato il futuro, almeno economico, della Federazione Russa ma consente di traghettare il Paese verso cambiamenti carichi di prospettive. In Russia gli oligarchi restano a tutt’oggi alla finestra rimanendo la spina dorsale dell’economia nazionale e conservando quel potere che accentua la diseguaglianza sociale così da alimentare un malcontento popolare difficile da placare nonostante la recente rimozione dell’ala neoliberale capeggiata da Medvedev; Mosca oggi conosce un profondo rinnovamento economico grazie alla sinergia con la Cina che ha condotto all’inaugurazione delle fabbriche di polimeri in Siberia, alla completa defiscalizzazione dei territori oltre gli Urali, all’installazione di avveniristiche strutture ricettive per turisti in prossimità dell’Oceano Pacifico, ad un’intesa complessiva con Pechino che sta favorendo la nascita di piattaforme commerciali sempre più competitive nel mercato globale e a numerosi altri progetti che spaziano in molteplici campi. Ma è una transizione lunga e carica di incognite e Putin deve vigilare per garantire la stabilità della Nazione; la Russia resterà a difesa della propria vocazione imperiale e per questo combatterà sempre contro le élites globaliste seppur non recidendo il legame controverso con gli oligarchi; per questo non può, quand’anche volesse, soccorrere un Occidente che cade giorno dopo giorno nelle grinfie di una tirannia morbida nelle forme e feroce nella sostanza. Per questo, in Italia e altrove non possiamo aspettarci aiuto da alcuno, ma dobbiamo cavarcela da soli. 

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