UNILATERALISMO VS MULTILATERALISMO - SECONDA PARTE
DI: GIUSEPPE FARINA
Tale
depauperamento della società occidentale non poteva non condurre a chiari
riflessi anche nelle dinamiche della geopolitica mondiale: da questo punto di
vista, soccorre l’istintivo parallelo con quanto avvenuto durante il periodo
della Guerra Fredda, allorquando una delle principali ragioni del successo del
“mondo libero” consistette nella capacità di esercitare una formidabile forza
di attrazione nei confronti dei popoli dell’universo comunista grazie alla sedimentazione
e al successivo consolidamento di un complesso di protezioni sociali e di
libertà costituzionali che spingevano porzioni sempre più massicce delle
popolazioni dell’Europa orientale a cercare la fuga dai Paesi del Socialismo
reale per riparare in qualche modo nell’Ovest capitalistico; tuttavia, allo
stato attuale, con la dismissione lucidamente eseguita del welfare state, lo
schieramento uscito vincitore dal confronto Est-Ovest – quello atlantico - ha
inesorabilmente esaurito la propria forza di attrazione come invece accadde con
i popoli dell’allora blocco comunista specialmente laddove preveda
l’assoggettamento allo schema neoliberale di tutte le Nazioni del Pianeta,
inteso nell’accezione di vera e propria conquista sullo scacchiere planetario
di ogni singolo Stato che non abbia concesso la propria incondizionata
sottomissione.
Inconsapevolmente
il medesimo schema neoliberale pone, quindi, le premesse necessarie alla
graduale crescita e poi all’affermazione di un regime multilaterale relativamente
al quale è possibile identificare i più risoluti fautori nella Federazione
russa e nella Repubblica Popolare Cinese e, sotto questo profilo, due sono i
momenti salienti che segnano una svolta radicale concernente la configurazione
di tale assetto multipolare, vale a dire, da un lato, la cosiddetta rivoluzione
arancione divampata in Ucraina nel 2006, la quale sancì l’avvento al potere del
filoamericano Yushenko: quell’episodio assume una rilevanza inequivocabile sia
perché può a tutt’oggi essere considerata l’unica occasione in cui il
Presidente russo si fece cogliere di sorpresa, sia principalmente perché al
Cremlino da quel momento subentrò la consapevolezza di non poter riporre alcuna
fiducia negli USA, né di poter avviare con Washington un dialogo su basi
paritarie; l’altra circostanza centrale nello prospettiva dell’affermazione di
un regime multipolare a livello mondiale è rappresentata dalla Conferenza di
Monaco di Baviera nel 2007, allorquando Vladimir Putin tiene un discorso nel
quale incontrovertibilmente denuncia il declino irreversibile della postura
unilaterale statunitense nonché la contestuale necessità di ripensare
l’organizzazione dei rapporti fra Nazioni in una nuova dimensione multilaterale
che contempli la coesistenza di regimi politici di differente natura e fra i
quali la liberal-democrazia non identifica necessariamente l’organizzazione
socio-politica migliore, concetto implicitamente ribadito peraltro lo scorso
anno a seguito degli scontri avvenuti presso Capitol Hill prima dei quali Putin
fu l’ultimo grande leader internazionale a formulare le proprie congratulazioni
all’indirizzo del neoeletto Biden.
Del
resto, i primi a cogliere l’importanza del discorso tenuto dal Presidente russo
in quel consesso furono proprio gli americani che con la nuova Amministrazione
Obama non tardarono a scatenare la guerra economica verso la Russia chiedendo
all’Arabia Saudita di pompare greggio sui mercati internazionali allo scopo di
tentare di mettere in crisi il governo russo per giunta senza riuscirci;
tuttavia, se il discorso di Putin segnò l’esordio nell’individuazione del
sorgere dell’ormai imminente mondo multipolare, quest’ultimo non avrebbe mai
potuto prendere le mosse, laddove avesse dovuto prescindere dallo stagliarsi
sempre più inconfondibile del nuovo assoluto protagonista tra i principali
player globali, ossia la Cina: alla succitata dismissione dell’impianto su cui si fondavano
le tutele sociali nel “mondo libero” nel corso dell’ultimo ventennio, fa da
contraltare quanto è infatti stato possibile osservare in particolar modo nel
continente asiatico e nello specifico le evoluzioni registrate nella Repubblica
Popolare Cinese con riferimento principalmente alle riforme intervenute
nell’ultimo lustro su preciso incipit del PCC, vieppiù a seguito degli effetti
prodotti dal Covid-19: nella giornata del 7 Aprile, è stato, infatti,
annunciato che saranno completamente esentati dalle spese mediche i malati
cronici, mentre per le fasce protette, ossia in larga misura i lavoratori, si prevede
un rimborso pari al 50% di quanto pagato; si tratta soltanto dell’ultimo di una
serie di riforme economico-sociali foriere dell’introduzione di un sistema di
protezione universale in un Paese che conta circa 1.4 miliardi di persone già
parzialmente avviato con l’edificazione del salario
sociale di classe avente lo scopo di integrare un complesso poderoso di
misure che Pechino sta gradualmente dispiegando. Inoltre, ad avviso di chi
scrive, piuttosto che continuare a rimarcare gli inequivocabilmente straordinari
risultati raggiunti dalla Cina in ambito macroeconomico, dei quali è sovente
possibile avere notevole riscontro anche sugli organi di informazione
tradizionali - con una rapida menzione alle politiche imperniate su
investimenti pubblici, manifattura specializzata nell’output ad elevato valore
aggiunto, i balzi straordinari nell’AI, il 5G e quell’insieme di fattispecie
con le quali la Cina è ormai in procinto di scalzare gli USA nella leadership
mondiale – è certamente degna di una più approfondita attenzione in questa sede
l’elencazione di alcuni dei progressi sociali salienti posti in essere da
Pechino negli ultimi vent’anni, quali l’aver centuplicato gli stipendi, con
salari medi più alti di quelli di europei, un’età pensionabile più bassa della
nostra (per le donne 55 anni colletti bianchi, 50 per i blu) e l’aver sottratto
dalla povertà assoluta 100 milioni di persone e altri 770 milioni di individui
dalla povertà relativa: lo snocciolamento di queste cifre da sole bastano a
suggerire al lettore come l’introduzione di misure crescenti di tutela sociale
sembri seguire un percorso inversamente proporzionale allo smantellamento del
welfare state occidentale e soprattutto europeo, ma ancor più ci fa toccare con
mano come le pretese unilateraliste dell’Occidente legittimino e consolidino la
prospettiva di un mondo multipolare fondato anzitutto sull’osservanza del
Diritto Internazionale ma ancor sulla competitività di due blocchi – vale a
dire quello occidentale e quello formato da Cina e Russia – il cui esito
verosimilmente non potrà scaturire dal tuono dei cannoni, per usare una
metafora sempre valida, ma piuttosto dai traguardi socio-economici che le
diverse Potenze protagoniste di questa partita saranno in grado di cogliere nei
prossimi anni, a questo punto, si arriva infatti alla questione di fondo
dell’intero ragionamento fin qui illustrato: quale futuro attende l’umanità
negli anni a venire? Per rispondere
questa domanda senza tracimare nella predizione del futuro, bisogna
rigorosamente attenersi ai parametri con cui le Potenze globali hanno scelto di
confrontarsi ormai da circa quindici anni, cioè quelli delle sanzioni e delle
armi adoperate per reagire all’offensiva americana su tale terreno: gli Stati
Uniti, già con gli ultimi scampoli dell’Amministrazione Obama, piuttosto che
prevedere il ricorso a scontri bellici dall’esito incerto e dai costi umani e
finanziari assai pesanti, hanno apertamente puntato sull’adozione di misure
sanzionatorie nei confronti di quei Paesi che non abbiano conformato le proprie
politiche agli indirizzi provenienti dal Washington Consensus e dalle
cancellerie occidentali; in questi anni, le sanzioni sono state adottate contro
l’Iran – Stato contro il quale risulterebbe difficilissimo avviare un conflitto
– e poi contro Venezuela, Corea del Nord, Siria e altri ancora, trattandosi di
provvedimenti che hanno colpito in maniera durissima i soggetti finiti in una
lista che anno dopo anno si va allungando. Queste sanzioni però conservano
efficacia ad una tassativa condizione, vale a dire che gli USA riescano a
mantenere l’ultimo grande assett di cui dispongono e cioè il dollaro quale
valuta di riserva negli scambi commercial internazionali tramite lo SWIFT: fin
quando per gli Stati Uniti sarà possibile la difesa dello status quo la
leadership americana nel mondo risulterà sempre fuori discussione, e tuttavia,
è proprio su questi campo che nel silenzio di tutti gli organi di informazione
tradizionali si sta giocando la partita decisiva, dal momento che Cina e
vieppiù Russia hanno iniziato una serie di misure non soltanto per promuovere
il progressivo sganciamento dello loro economie dal dollaro, ma stanno
concretamente costruendo un’alternativa al sistema concepito e avviato con gli
accordi di Bretton Woods. In particolare, la Russia ha non soltanto dismesso
tutti i Tresuries gradualmente comprati negli anni ma ha anche drasticamente
ridimensionato le proprie riserve valutarie in dollari che alla fine dello
scorso anno erano scese al 22% delle ricchezze complessive della propria Banca
Centrale; anche la Cina, specialmente a seguito degli scontri durissimi
avvenuti con gli USA negli ultimi anni in tema di politiche monetarie e
commerciali, ha scelto di seguire la stessa strada e ha ridotto la propria
riserva di Treasuries da 2000 fino agli ormai prossimi 800 miliardi di dollari
e sta com’è ovvio riducendo in modo altrettanto drastico le riserve in dollari.
Ma
non è tanto e non è solo a questo a mettere in discussione il predominio
americano nel mondo perché altre dinamiche si stanno rapidamente susseguendo:
da un lato, lo schema neoliberale - come precedentemente accennato in questa
analisi - che ha condotto alla finanziarizzazione dell’economia, presuppone infatti pressoché ininterrotte iniezioni
di liquidità da parte delle principali Banche Centrali onde assicurare la
sopravvivenza di un sistema avvitato su se stesso che non può recidere il
cordone ombelicale al quale è indissolubilmente legato a pena di definitiva
dissoluzione dello stesso, mentre parallelamente è possibile assistere a
exploit senza precedenti nella corsa rialzista dell’oro e all’espansione
incontenibile delle criptovalute; dall’altro, il blocco sino-russo
congiuntamente con numero elevato di partner regionali prosegue nel proprio
percorso di emancipazione economica, tanto da poter parlare di rischio di
irrilevanza geopolitica per l’Occidente e in particolare per l’Europa, mediante
la stipulazione del Trattato denominato RCEP, ossia l’accordo di libero scambio
fra quindici Nazioni dell’Asia del Pacifico che rappresenta un’enorme vittoria
soprattutto cinese nei riguardi degli USA nonché nei confronti di potenziali
velleità di Bruxelles di imposizione dei propri standard. Tale accordo concretamente
stabilisce la più grande area di libero scambio del Pianeta e dovrebbe
comprendere quasi un terzo dell’attività economica mondiale, prescindendo
dall’apporto di Stati Uniti e UE; inoltre, si tratta di un’area del mondo
popolata da più di 2 miliardi di persone con Paesi in crescita tumultuosa e
altri esportatori di fonti di energia e materie prime tali da creare il più
grande mercato libero e in cui lo Yuan Renmimbi sarà la valuta di riferimento
di tutta questa gigantesca area: in questo modo perverranno ad una riduzione
delle tariffe tra Stati membri, seppure in maniera graduale e con passaggi
condivisi che configurano le nuove modalità del processo multilaterale, poiché
in questo intreccio diplomatico convivono Nazioni governate da partiti
comunisti, Paesi filo-occidentali e, per così dire, battitori liberi, sulla
stessa linea di lunghezza che aveva consentito a suo tempo di dare vita alla
vecchia CEE. Le implicazioni che tali eventi possono avere sulla tenuta del
valore espresso dal dollaro USA non hanno
tardato a manifestare i propri effetti, laddove si tenga conto di come la quota
globale delle riserve valutarie denominate in dollari USA sia scesa al 59%
delle disponibilità planetarie trattandosi peraltro del minimo toccato da 25
anni a questa parte: tali riserve in valuta estera consistono in Treasuries,
obbligazioni societarie e titoli del più disparato genere così da formare le
riserve delle Banche Centrali estere; fino al 2014 questa quota era pari al 66%
ed è quindi scesa di un punto percentuale l’anno e di questo passo a breve la
suddetta quota scenderà al di sotto della soglia di sicurezza del 50% tanto da
poter ipotizzare uno scenario nel quale il governo americano debba fronteggiare
una pericolosa spirale inflazionistica che costringerebbe gli Stati Uniti a
affrontare una crisi inedita di difficoltà di reperimento di beni e servizi sui
mercati. Dunque tutto questo ci conduce alla domanda conclusiva e dirimente di
questa dissertazione: in uno Stato come gli USA, che ha largamente dismesso la
propria industria manifatturiera con un’agricoltura che smarrisce giorno dopo
giorno competitività sui mercati internazionali, un deficit federale superiore
ormai ai 27000 miliardi di dollari e una popolazione di 330 milioni scarsi di
abitanti, quale impatto comporterebbe la rinuncia all’ultimo grande assett che
permette, seppure fra crescenti limitazioni, a tutt’oggi la conservazione della
leadership mondiale? Certamente la perfetta macchina sanzionatoria realizzata
in tutti questi anni vedrebbe inficiata quasi del tutto la propria validità e
innescherebbe dinamiche di fatto non più controllabili da Washington che
assisterebbe ad una drammatica riduzione della propria capacità di incidere
sugli sviluppi delle politiche planetarie; e la plausibile detronizzazione da
tale ruolo di guida nel mondo quali conseguenze avrebbe sugli assetti
geopolitici globali? Si tratta, com’è facilmente intuibile, di domande per le
quali ad oggi, a giudizio dello scrivente, non esistono risposte, comunque non
risposte esaustive e definitive, ma la prospettiva del mondo multipolare pare
inequivocabilmente concreta e soprattutto prossima.

Esposizione economica di rilievo, interessante e ben fatta.
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