Una questione Capitale: tra il Club di Roma e il Ponte dell’Industria
DI GIUSEPPE FARINA
“Qual’è il tuo cantante preferito?” A chi di noi non è capitato, magari nel mezzo di una conversazione con una persona conosciuta da non molto tempo, di sentire questa domanda? Anche chi scrive non esula da questa pressoché totalizzante categoria e, almeno fino al periodo adolescenziale, la risposta al momentaneo interlocutore era sempre la stessa: per uno nato e cresciuto a Roma il preferito non può che essere Venditti. Questo incipit rievoca nello scrivente innumerevoli ricordi di gioventù nonché le ore trascorse ad ascoltare le canzoni del cantautore romano - figlio di un prefetto suo malgrado trascinato nella torbida vicenda della P2 - fra le quali sarebbe impresa assai ardua riuscire a sceglierne una, ma che annovera un brano più attuale che mai in relazione sia ad alcuni singolari eventi recentemente registrati nella Capitale, sia in merito a tendenze consolidate da lunga data nella Città Eterna, ossia quello celeberrimo intitolato Roma capoccia; e proprio come suggerisce il titolo di questa canzone, vicende che eufemisticamente potremmo definire poco limpide hanno trascinato l’Urbe in un vortice di fatti di cronaca che immergono la città in un clima cupo sottolineato in maniera perentoria da circostanze bislacche ma anche sinistramente inquietanti: su tutte, negli ultimi giorni ha indiscutibilmente spiccato l’incendio e la successiva implosione del Ponte dell’Industria, conosciuto per aver sempre rappresentato un’arteria nodale nel tentacolare e insopportabile traffico romano. In effetti, scorrendo le pagine dei principali quotidiani nazionali, ci si accorge, e non certo da ora, come la Capitale d’Italia abbia assurto agli, si fa per dire, onori della cronaca per essersi trasformata in una sorta di paradiso di piromani talora occasionali, come per l’incendio vicino Piazza della Radio, talaltra autenticamente instancabili, come con le fiamme divampate all’interno di un deposito ATAC che ha ridotto a carcasse incenerite una trentina di mezzi della già mal governata azienda capitolina di trasporto pubblico; correttamente il lettore, giunto a questo punto, avanzerà una legittima domanda: come sono collegati i due episodi e soprattutto dov’è il nesso con un blog che tratta di geopolitica? In proposito, chi scrive non può logicamente fornire prove, ma può certamente trarre alcune oggettive conclusioni: in primo luogo, per quel che riguarda il Ponte dell’Industria, chiunque conosca un minimo la toponomastica romana, è consapevole della sua prossimità ad un complesso di archeologia industriale sormontato dall’imponente scheletro del “gasometro”, ossia di quella risalente infrastruttura che nella Roma degli anni Sessanta assolveva alla funzione di promuovere la distribuzione del gas all’utenza della Capitale; il gasometro costituisce un simbolo della città, ma ancor più esso è un simbolo dell’ENI, vale a dire di quella che, fra mille limiti e contraddizioni, rappresenta forse l’ultima grande istituzione al servizio di questo Paese. L’azienda con il cane a sei zampe, nelle ultime settimane, si è contraddistinta in relazione ad un suo notevole attivismo nei territori libici, allo scopo di assicurare le vitali forniture di gas e petrolio in una contingenza internazionale per la quale esse non sono affatto scontate e che potrebbero far precipitare l’Italia in una crisi drammatica e inaudita nel nostro Paese; in secondo luogo, in relazione alla distruzione dei mezzi ATAC, non si può non rilevare come essa giunga a ridosso delle imminenti elezioni amministrative: il nuovo Sindaco nella Capitale dovrà infatti affrontare l’annosa questione delle cosiddette municipalizzate: quest’ultime, seppur notevolmente malridotte, rappresentano un boccone prelibatissimo, principalmente agli occhi di chi intende compiere l’ultimo e più grande saccheggio di ricchezze a Roma. Questi due episodi, apparentemente scollegati, lasciano peró nitidamente intravedere l’azione di un’unica mano, mossa da un attore internazionale da tempo abituato ad agire con sfrontata protervia in Italia e che nutre interessi enormi in entrambe le vicende: avete indovinato? Si tratta, com’è ovvio, del governo francese: i nostri amatissimi cugini d’Oltralpe, da un lato, non devono aver eccessivamente gradito le iniziative italiane in Nord Africa, dall’altro, hanno inviato un segnale inequivocabile all’indirizzo di poteri romani che nell’elezione del sindaco della Capitale giocano da sempre un ruolo fondamentale. Dite che si tratta di complottismo? Puó darsi, ma un dato rimane incontrovertibile in queste vicende, ossia il Ponte dell’Industria era una struttura quasi interamente costituita da ferro - da cui proprio l’appellativo di Ponte di Ferro con il quale è meglio noto - e questo metallo si scioglie ad una temperatura non inferiore ai 1200 gradi centigradi: davvero qualcuno può credere che alcune bombole di gas esplose in quei paraggi possano aver provocato una deflagrazione tale da raggiungere quel calore così intenso?
Ma come Roma sia centro di oscure vicende e trame opache è storia decisamente risalente, che prende le mosse in modo presumibile all’inizio degli anni Sessanta, in coincidenza con la fine del boom economico e la contestuale caduta del saggio di profitto da parte degli attori economici salienti in quello specifico periodo, quando si conclude l’esperienza del centro-sinistra in Italia ed emerge irresistibile un impulso a ridisegnare il consesso civile in base a canoni tanto inediti quanto inumani nella loro brutale essenza, concepiti sulla scorta delle elaborazioni di un florilegio di think thank, che prevalentemente sorgevano in ambito angloamericano, essendo generosamente sovvenzionati da noti contributori quasi sempre identificabili con finanzieri appartenenti ad una ben precisa dimensione oligarchica del capitale internazionale (in proposito, il riferimento è al precedente articolo: Multilateralismo vs unilateralismo); fra questi, certamente spicca il rinomato club di Roma, forse la prima grande organizzazione ambientalista fondata da politici e soprattutto economisti e magnati ben noti a livello internazionale: in merito, il contributo più conosciuto fornito da tale antesignana delle attuali ong consistette all’epoca nella pubblicazione del Rapporto sui limiti dello sviluppo, ossia un libello contenente numerose insulsaggini che prevedevano, nel volgere di un limitato arco temporale, scenari apocalittici che non si realizzarono, dal momento che l’umanità è ancora presente su questo Pianeta e l’unico rischio che essa sembra correre è in realtà rappresentato da personaggi non dissimili da quelli che pubblicarono il famigerato Rapporto stesso. Tuttavia, nonostante le incongruenze e le illogicità in esso contenute, il Rapporto sembró fin dall’inizio conseguire gli obiettivi che aveva prestabilito, vale a dire, da un lato, favorire la formazione di un vasto movimento d’opinione sempre più sensibile alle istanze avanzate dalla allora neonata corrente ecologista, dall’altro, creare le premesse per promuovere la diffusione capillare di idee e teorie le quali, ben lungi dall’offrire dati ed elementi che potessero suffragare quanto da esse sostenuto, diventavano verità acquisite e incontrovertibili in virtù della sola loro fonte di provenienza; dunque, nel corso degli anni, i reports redatti dal club di Roma si ammantarono di un’aurea quasi religiosa, calati in una dimensione sacrale foriera della stessa sensibilità che ai giorni nostri contraddistingue il dibattito sulle indicazioni offerte dalla “Scienza”.
I risultati di questa deriva non tardarono a manifestarsi e una prima tangibile conseguenza si ebbe già pochi anni dopo la fondazione del club medesimo, allorquando seguendo le suggestioni create in quel momento nel 1973 fu imposta la cosiddetta austerità: quell’evento storico, rivisto alla luce di quanto in seguito avvenuto, appare come un primo fondamentale esperimento sociologico di massa con il quale si costrinse la popolazione ad assumere atteggiamenti a dir poco scarsamente razionali; in realtà, come oggi sappiamo, questi esperimenti si sono costantemente ripetuti nel tempo ed anzi l’opinione pubblica assiste ad una loro cadenza quasi periodica, specialmente dopo la caduta del Muro di Berlino. Che cosa e ancor più chi c’è dietro tutto questo? Al riguardo, senza addentrarci in discorsi che ci condurrebbero lontano, consiglio di guardare gli organigrammi del club di Roma ed i suoi innumerevoli consiglieri e sostenitori: l’attuale presidente del club ricopre numerosi ulteriori incarichi, come nella Commissione Europea e nei board di ricche società industriali e finanziarie; lo scienziato che ha sviluppato tutti i principali modelli climatici proposti dal club rappresenta il vicepresidente dell’ipcc all’ONU; i finanziatori annoverati partecipano alle riunioni del Bildenberg. Si potrebbe proseguire a lungo, ma queste informazioni rendono edotti dell’intreccio inestricabile che qualifica la strombazzata questione climatica e dei giganteschi interessi economici che ruotano attorno ad essa; si tratta di un’operazione spregiudicata e la posta in palio siamo tutti noi.

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