Obiettivo NATO
DI GIUSEPPE FARINA
Gira in queste settimane un parallelismo al quanto rabbrividente che anche chi scrive non ha potuto fare a meno di cogliere, ossia quello fra quanto l’opinione pubblica internazionale osserva in questo terribile momento in Europa orientale e i tragici avvenimenti risalenti alle precedenti guerre mondiali: in particolare, nei dibattiti pubblici emerge sovente la tendenza a mettere in risalto come la deflagrazione dei conflitti bellici su scala planetaria divampati nel ventesimo secolo seguirono, seppure non pedissequamente e con diversità legate alle contingenze di quelle epoche, una dinamica notevolmente analoga che per molti versi denota raggelanti rassomiglianze con gli eventi attuali; pertanto, gli assertori di tale percorso ciclico nelle conflagrazioni mondiali rilevano come sia la Prima Guerra Mondiale, sia la Seconda Guerra Mondiale abbiano preso le mosse da episodiche crisi regionali che hanno svolto la mansione di veri e propri detonatori di tensioni geopolitiche latenti o in talune circostanze anche apertamente manifeste. Del resto, la guerra combattuta tra il 1914 e il 1918 scaturí formalmente dall’assassinio del principe ereditario asburgico ma affondava le proprie radici tanto in contrapposizioni regionali quanto nella rivalità strategica fra Germania e Gran Bretagna come pure nel disegno egemonico statunitense avviato in coincidenza della devastazione in Europa e deciso nella consapevolezza che lo scontro tra le Potenze del Vecchio Continente avrebbe sostanzialmente rimosso dallo scenario internazionale ogni competitore globale degli USA; quindi, esso iniziò nei Balcani e poi coinvolse inesorabilmente altre persone quali volontari provenienti da ogni angolo del globo (Vi ricorda nulla di attuale?), dopo singoli Stati in una corsa a intervenire nel timore di non poter cogliere i frutti del successo finale della lotta e, infine, altri continenti.
Il secondo conflitto mondiale rinviene un’origine analoga, laddove una crisi regionale, quale quella della rivendicazione territoriale tedesca su Danzica, deflagrò dapprima in un confronto bellico fra la Germania nazista e le Potenze uscite vincitrici nella guerra risalente, ma in seguito, seppur distaccandosi per evolvere delle situazioni, ampiezza distruttiva e massacro delle popolazioni civili, anch’essa finí con l’esercitare un autentico potere di attrazione, volontaria od involontaria, nei riguardi di molti Stati nel mondo - e l’Italia ne sa qualcosa - fino ad assumere un carattere pienamente mondiale a partire in modo particolare dal 1941, vale a dire dall’ingresso USA in un conflitto già cominciato due anni prima. Il lettore avrà, a questo punto, colto la domanda successiva: e oggi? Può accadere la stessa cosa con la guerra in Ucraina? Purtroppo questa ipotesi non è completamente da scartare come tutti vorremmo; a dispetto di un’indecorosa classe politica autocompiaciuta di stare inviando armi che alimentano la dinamica bellica, la scelta dell’Occidente, spontanea o coartata che sia, prelude a nulla di buono; molti sono gli interrogativi che un governante lungimirante dovrebbe porsi in una simile circostanza e che tutti pare vogliano eludere fra i quali una questione spicca su ogni altra, ossia quali sono gli obiettivi concretamente inseguiti da Putin? La risposta a questa domanda, com’è ovvio, è tutt’altro che facile: per azzardare comunque un tentativo, bisogna ripartire gli scopi perseguiti dal governo russo su di una prospettiva di breve, medio e lungo termine; pertanto, in merito ai primi, essi sono abbastanza semplicemente identificabili e giá oggi acclarati, annoverando tra questi, in primo luogo, lo smantellamento dei laboratori batteriologici statunitensi dislocati sul suolo ucraino contenenti, come attestato dalla documentazione in essi rinvenuta dal comando russo per la gestione dei materiali NBC, agenti patogeni da utilizzare in previsione di una qualche attività destabilizzatrice in un futuro relativamente prossimo tale da minare la leadership russa nel giro di poche settimane; in secondo luogo, la rimozione definitiva di ogni genere di minaccia alla tutela della sicurezza nazionale russa, fosse essa rappresentata dall’allestimento di bombe atomiche “sporche”, dall’acquisto di armi nucleari tattiche da parte del governo ucraino come dallo sciabordio di navi NATO in prossimità della fascia costiera russa sul Mar Nero allestite al loro interno con silos indifferentemente veicolanti tanto vettori atomici quanto balistica convenzionale o dalla costruzione di basi missilistiche al confine con la Russia trattandosi, queste ultime due, di fattispecie del tutto letali che avrebbero concesso ai vertici militari occidentali la prerogativa di lanciare un attacco preventivo talmente devastante sia da annientare la compagine russa nella sua interezza, sia principalmente da pregiudicare qualunque sua possibile controffensiva con la compromissione di ogni deterrenza atomica e la contestualmente irreversibile alterazione di quell’equilibrio del terrore posto a fondamento dell’architettura geopolitica negli ultimi ottant’anni. Infine, ultimo ma non da meno, la protezione della popolazione russofona nel Donbass con annesso invio di un segnale inequivocabile sia nei confronti di quei Paesi ospitanti sul proprio suolo nazionale, al pari dell’Ucraina, congrue fasce di popolazione di etnia russofona a tutt’oggi soggette a massicce discriminazioni comprensive di lesioni dei diritti civili e delle libertà fondamentali (come avviene nel silenzio della cosiddetta comunità internazionale negli Stati baltici), sia nei riguardi di altre Nazioni (in primis Georgia) da tempo ampiamente ammiccanti verso la Nato onde fungere da testa di ponte in chiave antirussa.
Per quanto concerne gli obiettivi di medio termine, la deriva estremista e la contestuale degenerazione della società ucraina precipitata in un torbido clima di intolleranza e finanche razzismo, tanto da favorire l’avvento al potere di un presidente che intima alla popolazione russofona di abbandonare il Paese, ha indotto la Russia a gettare uno sguardo all’Occidente considerato nella sua interezza e ad esprimere una valutazione del suo peso complessivo nel mutato ordine mondiale: a Mosca subentra infatti la consapevolezza di come oggi lo schieramento atlantico appaia la provincia di un mondo improvvisamente diventato più grande che ha condotto ad una deminutio capitis dei governi occidentali di cui quest’ultimi faticano a capacitarsi o talora addirittura rigettano del tutto. A tal proposito, il Cremlino non può aver mancato di osservare come ad Ovest della Russia ci sia un’umanitá immersa in una lenta agonia, declinata da crisi della politica, dell’economia nelle sue diverse ramificazioni, della demografia e delle proprie accezioni identitarie, si tratti di religione, cultura o società; al contempo, ad Est, malgrado incorrano in inevitabili problemi e difficoltà, c’è un mondo in estremo fermento, proteso alla crescita economica, alla tutela dell’interesse nazionale, all’emancipazione geopolitica nonché al riscatto storico. Dunque, per il governo russo la scelta non è stata difficile: la guerra combattuta in Ucraina costituisce un inesorabile riposizionamento di una Federazione Russa che vuole stare dalla parte giusta della Storia e conseguentemente mette in conto un deterioramento inaudito dei propri rapporti, soprattutto con i Paesi europei, così da invertire il canone filoccidentale imposto quale parametro paradigmatico di tutta l’azione politica in Russia dalla prima metà del diciottesimo secolo ad oggi; da questo punto di vista, Putin avrà comunque già guadagnato il proprio posto nella Storia in conseguenza di un simile rovesciamento della postura politica russa.
Le considerazioni fin qui esposte contribuiscono alla ricostruzione del quadro circostante ed illuminano le ragioni sottese a quanto sta avvenendo, ma la risposta alla domanda posta quale imprimatur di tale articolo, ossia se il conflitto in corso possa lentamente scivolare verso una conflagrazione mondiale, può essere rinvenuta soltanto mediante la definizione degli scopi di lungo periodo perseguiti dal Cremlino: com’è evidente, la guerra in Ucraina costituisce un autentico redde rationem di una tensione internazionale strisciante dalla Conferenza di Monaco di Baviera del 2007, allorquando il Presidente russo denunció, in un discorso ormai storico, l’unilateralismo americano e invocò il ripristino di un mondo multilaterale necessario alla risoluzione dei tanti conflitti e delle aporie attanaglianti l’umanità; siamo allo scontro finale e solo uno dei due schieramenti contrapposti tra Est e Ovest potrà sopravvivere. Chi scrive è da tempo convinto che, nell’ottica della distruzione del nemico, Putin stia cercando di ottenere, oltre alle situazioni summenzionate, l’abbattimento del principale pilastro che incardina e inquadra l’intero ordine occidentale, vale a dire la NATO: quest’ultima, come sarebbe stato nella logica delle cose e come era stato promesso ai leader sovietici dopo la caduta del Muro di Berlino, sarebbe dovuta scomparire e disgregarsi ma in realtà essa ha iniziato a ricoprire un ruolo nuovo e parzialmente inedito a partire dalla guerra civile nell’ex Jugoslavia, tanto che gli stessi governanti dell’epoca non ebbero difficoltà ad ammettere che l’Alleanza atlantica rimase in piedi proprio in esito al conflitto nei Balcani, dato che gli USA decisero di servirsi di quello che al tempo appariva un relitto della Storia per coprire il proprio intento geopolitico nella regione. Oggi la NATO, ben lungi dall’essere una alleanza paritetica tra i suoi contraenti, rappresenta lo strumento principe dell’esercizio dell’egemonia USA sull’Occidente e organizzazione in grado di dettare l’agenda di tutte le Potenze al suo interno nonché di molti altri Paesi al di fuori di essa: in una prospettiva di medio-lungo termine infatti per la Russia è vitale promuovere la disgregazione di un così potente e omologante nemico che però fin dalla propria fondazione denuncia un chiaro punto debole: l’Alleanza atlantica si è infatti sempre sostanzialmente basata su di un elemento psicologico, quello della fiducia incondizionata nel supporto bellico USA qualora uno degli Stati membri fosse vittima di un’aggressione proveniente da una Nazione terza, ma il suddetto elemento denuncia ormai per intero la propria precarietà, specialmente alla luce della strumentalità e delle manipolazioni che hanno contraddistinto la politica internazionale USA dalla fine della guerra fredda laddove si è di sana pianta inventata l’esistenza di armi di distruzione di massa (Iraq), o si abbandonano Paesi precedentemente invasi malgrado la disponibilità all’epoca espressa dal governo locale a trattative al solo scopo di promuovere la destabilizzazione di un’intera regione così da favorire il caos alle porte dei grandi rivali geostrategici (Afghanistan) od ancora si adoperino Nazioni onde scatenare guerre di logoramento determinate sul lungo periodo (Ucraina); tuttavia, tale formidabile apparato bellico, malgrado la sua ampiezza e il numero di Stati ad esso aderenti, ha in quest’ultimi anni denunciato un inequivocabile gap tecnologico espresso sia dal contropiede sofferto con stupore nella progettazione e nel successivo sviluppo degli armamenti ipersonici, da cui gli USA dovranno prescindere ancora verosimilmente per un paio di anni, sia vieppiú nel relativo allestimento di uno scudo missilistico antiaereo efficace nella rilevazione e intercettazione di veicoli balistici con velocità di crociera superiore a quella della luce. Com’è intuibile, si tratta di una breve finestra temporale, disponibile per un anno o forse due, in cui la Russia può vantare una supremazia da far valere per condurre una negoziazione con Washington da posizioni di forza, tesa alla stipulazione di quel trattato di sicurezza collettiva che, nelle settimane antecedenti l’invasione in Ucraina, gli USA hanno deliberatamente esposto al pubblico ludibrio, od anche per ottenere un risultato ancora più importante, ossia l’abbattimento della NATO: un simile esito prescinde dalla prospettiva di un confronto guerreggiato ma, come osservato in precedenza, muove da un’unica necessità, quella di minare la tenuta dell’elemento psicologico fondante l’Alleanza atlantica: al Cremlino infatti basterebbe l’occupazione di limitate porzioni di Paesi limitrofi appartenenti alla Nato, allo scopo peraltro legittimo di prevenire l’installazione di basi missilistiche con armi ipersoniche, per conseguire l’obiettivo più grande di un’implosione del nemico; la Russia non dispone soltanto degli armamenti strategici, ma anche - cosa forse persino più rilevante - delle batterie integrate
(S-350, S-400 e S-500) in grado, esse sí, di colpire vettori nemici anche ipersonici. In conclusione, chi scrive, in risposta alla domanda di fondo di tale articolo, cioè se una nuova guerra mondiale sia verosimile, ritiene che un siffatto scenario non sia per nulla irrealistico e la possibilità di un allargamento del conflitto tutt’altro che impossibile; in particolare, il momento della verità potrebbe giungere dopo le elezioni di mid-term negli Stati Uniti: qualora l’attuale Amministrazione USA dovesse uscire con le ossa rotte dalla consultazione popolare, il desiderio di Mosca di trarre vantaggio da una situazione di oggettiva debolezza dell’avversario e di cogliere un’occasione quasi irripetibile potrebbe indurre il governo russo ad azzardare l’ipotesi succitata ed entrare in un Paese Nato (Estonia?) provocando il collasso dell’apparato atlantico. Fantascienza? Anche la guerra in Ucraina sembrava tale . . .


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