La Rivoluzione di Putin



Di Giuseppe Farina e Alessio Marini



Sopraffatti dall’ininterrotto flusso informativo, appositamente concepito da tecniche di manipolazione, l’osservatore, superstite all’allarmismo televisivo ed all’angoscia indotta nonché alle legittime inquietudini scaturite dalla dinamica bellica in essere, azzarda un’analisi non emotiva degli eventi, mossa anzitutto da una necessariamente parziale e concisa ricostruzione storico-politica di quanto sta avvenendo in Europa orientale tramite un inderogabile excursus geopolitico: per fare questo, occorre preliminarmente prendere le mosse dall’anno che rappresenta lo spartiacque fra il mondo novecentesco ed il Brave New World - come è stato nemmeno tanto ironicamente definito in questi ultimi giorni - prescindendo, com’è ovvio, da rigide definizioni temporali, vale a dire il 2001 e, specificatamente, il periodo successivo all’attacco alle Torri Gemelle. Chi scrive prescinde da una ricostruzione della dinamica geopolitica sul tema e rimanda il lettore ai precedenti articoli di questo blog, così da focalizzare l’attenzione solo sui fatti salienti che consentano di arrivare alla stretta attualità bellica: Putin nel 2001 giunge per primo a Washington e con una certa ingenuità politica, nella quale però non cadrà più, crede di aver concluso un accordo propedeutico alla ricostituzione dell’area ex sovietica, ma già la “rivoluzione arancione” del 2005 lo persuaderà circa l’impossibilità di riporre qualunque fiducia nella controparte occidentale e soprattutto americana; in seguito, Euromaidan rappresenterà il culmine della strategia USA volta a riproporre l’accerchiamento della Russia, così come delineato da Brzezinski definitamente naufragato però con la disfatta afgana e lo stop clamoroso sofferto dagli angloamericani in Kazakhstan.  

A seguito di Euromaidan, si è cercata una soluzione per poter trovare un compromesso e quindi creare una situazione di equilibrio tra le forze in gioco sulla terra della Rus’ di Kiev, compromesso che sembrava fosse arrivato con la firma del Protocollo di Minsk.

Il Protocollo di Minsk è stato firmato da un gruppo di contatto trilaterale tra OSCE, Russia e Ucraina per trovare una soluzione sulla situazione nel Donbass. Il 5 e 19 settembre 2014 vennero sottoscritti un protocollo e un memorandum, mentre nel febbraio successivo venne firmata una serie di misure in 13 punti per l'attuazione degli accordi di Minsk ("il cosiddetto Minsk-2"). Le parti si impegnarono a rispettare il cessare il fuoco, a ritirare le truppe dalle linee di confine, vennero vietate anche le armi pesanti nell'area della zona cuscinetto, il tutto sotto il controllo degli osservatori dell'OSCE, che avrebbero dovuto monitorare l'attuazione di queste regole. Oltre allo scambio di prigionieri sul principio del "tutti per tutti", negli accordi la parte ucraina avrebbe dovuto adottare la legge sullo status speciale delle regioni di Donetsk e Lugansk e tenervi elezioni locali. 

Di fatto, per sette anni, dopo lunghe trattative, le parti sono riuscite solo a realizzare lo scambio di persone trattenute con la forza. I negoziati sulla pace in Donbass si sono arenati a causa del fatto che i loro partecipanti hanno interpretato fin da subito gli accordi di Minsk in modo diverso, quasi cardinale.

In questo scenario, in cui gli USA hanno commesso l’errore imperdonabile di abbandonare le cautele a suo tempo suggerite dall’Ammiraglio Mackinder e, principalmente fra le altre, quella di tenere separate ad ogni costo potenze globali quali Cina e Russia - come efficacemente fece mezzo secolo fa Kissinger perpetuando lo scontro iniziato con la battaglia di Ussuri - tanto da propiziare, con le loro mire espansionistiche sulla Siberia, l’instaurazione di un partenariato strategico del tutto inedito tra Mosca e Pechino, si giunge al conflitto con Kiev in corso mentre si scrive: l’Ucraina costituisce l’ultima spiaggia per gli Stati Uniti sia per prevenire la formazione di quell’unico tessuto euroasiatico che atterrisce Washington da oltre due secoli, sia per infliggere un colpo decisivo che possa rovesciare l’inerzia del confronto con i propri rivali globali, Cina e Russia. 

Qui si staglia il nucleo della questione, dato che il conflitto in Europa orientale rappresenta la grande scommessa di Putin: dalla fine della Prima Guerra Mondiale, quando le Potenze dell’epoca misuravano la contesa mondiale in termini ottocenteschi, ossia di capacità bellica, gli USA per primi si rendono conto che le guerre, per essere vinte , non hanno più tanto bisogno di armamenti, bensì di risorse finanziarie; del resto, questa convinzione si consoliderà a partire dal 1971, anno in cui è abolita la convertibilità del dollaro in oro, così da concedere agli USA la prerogativa di stampare moneta illimitatamente con la quale dominare il mondo, depredare le ricchezze in ogni angolo del Pianeta e delocalizzare la manifattura negli Paesi più poveri scaricando su di essi costi sociali e ambientali; Washington si trasforma nella Nazione più indebitata del mondo, nell’ultimo trentennio accumula 11 trilioni di miliardi di deficit nelle partite correnti con una bilancia commerciale fuori controllo, ma il sistema regge perché gli Stati satelliti degli USA restituiscono il gigantesco surplus commerciale andando a finanziare il deficit federale americano e restituendo i dollari emessi dalla Federal Reserve.

In tutto questo, la Cina, che deve prescindere dalle capacità militari di Russia e USA, non mira a contestare il sistema in essere ma a soppiantare gli Stati Uniti sostituendoli dall’interno e conquistando in tal modo la leadership mondiale; ragionamenti corretti, ma che colpevolmente sottovalutano la Russia: Mosca, con la guerra in Ucraina, non vuole soltanto respingere l’accerchiamento americano e la relativa reiterazione del predominio USA sul mondo, ma provocare una rivoluzione nella scelta del modello geopolitico. Non più parassitismo finanziario americano, con una Nazione che vanta un’occupazione basata al 70% sulla creazione di dollari, ma il ritorno a schemi di stampo ottocentesco, con il ripristino del potere delle armi, dato che, qualora la finanza non basti più per dominare il mondo, restano soltanto esse.

La Russia sta ripristinando la sua unità etnica, facendo così terminare il lutto per la caduta dell’Unione Sovietica, poiché un’Ucraina sotto il controllo occidentale creerebbe un problema per il Cremlino. Come detto in precedenza questa è la scommessa di Putin. In un mondo sempre più definito dalla rivalità epocale tra Cina e Stati Uniti, mentre i due decidono tra di loro chi è più adatto a governare il mondo, la Russia sta cercando di riappropriarsi almeno di parte dello spazio geopolitico nell'Europa orientale che i leader sovietici avevano sempre dato per scontato. Di certo non arrivare fino a Praga, ma potrebbe aver deciso che l'Ucraina sia un punto di pressione adeguato sull’Occidente che guarda inerme, abbaia e non morde. 

Il governo russo sapeva di andare incontro alle sanzioni occidentali, ma punta a non soffrirne in maniera eccessiva le conseguenze: se questa manovra riesce, sarà rivoluzione e gli equilibri globali non saranno più gli stessi.

Ogni messaggio che riguarda l’eventualità di un conflitto nucleare fa parte della Brinksmanship, ovvero l’applicazione di pressione psicologica per cercare di ottenere un risultato vantaggioso, portare l’avversario al limite per poi così indurlo ad arrendersi o a fare concessioni. I leader sovietici e russi l’hanno già praticata, con vari gradi di successo, e Putin conosce bene questa tradizione stabilita dai suoi predecessori. Il Cremlino è disposto a usare una schiacciante forza bruta per perseguire i suoi obiettivi. Anche dopo il crollo del socialismo, Mosca è rimasta sempre preoccupata per la sua posizione nell'ordine gerarchico globale e non si preoccupa di difenderla e migliorarla anche col linguaggio della forza. Putin vuole tornare in un mondo dominato dal realismo vero e puro, il Cremlino segue alla lettera il capolavoro machiavelliano del Principe, facendo della ricerca e del mantenimento del potere, indipendentemente da questioni religiose o morali, il suo solo scopo.

D’altro canto, l'Europa, come parte dell'Occidente, ha necessità di autonomia, poiché il progetto di integrazione europea non ha senso strategico se si mantiene il controllo ideologico, militare e geopolitico americano sul Vecchio Mondo. 

Ma il confronto con la Russia, in cui gli americani stanno trascinando l'Europa intera e quindi non sono l’Unione Europea, priva gli europei della possibilità dell’indipendenza, per non parlare del fatto che allo stesso modo all'Europa si sta cercando di imporre una rottura economica con la Cina. Gli atlantisti sono felici che la "minaccia russa" unisca il blocco occidentale, però non viene compreso come senza la speranza di una futura autonomia, economica ma anche militare, il progetto europeo semplicemente crollerà nel medio termine.  

Perché la costruzione di un nuovo ordine mondiale sta accelerando, e i suoi contorni sono sempre più chiaramente visibili attraverso la copertura dilagante della globalizzazione anglosassone. Un mondo multipolare è finalmente diventato una realtà: l'operazione in Ucraina non è in grado di radunare nessuno tranne l'Occidente contro la Russia. Perché il resto del mondo vede e comprende perfettamente: questo è un conflitto tra la Russia e l'Occidente, questa è una risposta all'espansione geopolitica degli atlantisti, questo è il ritorno della Russia nel suo spazio storico e del suo posto nel mondo. 

Per ultimo, concludiamo questo ragionamento, parlando del dramma ucraino: la Russia, al momento dell’inizio dell’invasione, verosimilmente confidava nella presa del potere dell’esercito di Kiev in modo da avviare un confronto razionale con un interlocutore non eterodiretto da Washington, ma purtroppo questo scenario non si è realizzato; chi scrive ha usato l’avverbio purtroppo perché teme che si possa materializzare la situazione peggiore per la popolazione civile, ossia quella di un contesto analogo a quello siriano. Le truppe russe potrebbero, a breve, non avere tanta voglia di confrontarsi con nemici armati dall’Occidente di tutto punto con armamenti particolarmente adatti per la guerriglia urbana e, quindi, essere indotti a portare semplicemente il caos a livello regionale: senza un governo centrale che eserciti un potere effettivo sul territorio, senza elettricità, connessioni informatiche, rifornimenti, vie di comunicazione, assistenza sanitaria e farmaci Mosca non ha nemmeno bisogno di vincere la guerra, ma deve solo lasciare che l’Ucraina precipiti nell’anarchia diventando un’area con cui nessuno vorrà più avere a che fare; è uno scenario che chi scrive sinceramente non si augura perché foriero di enormi sofferenze. Inoltre, non si può escludere che in un simile contesto la situazione internazionale non possa peggiorare, laddove Putin ha parlato di conseguenze inimmaginabili: difficile prevedere a cosa faccia riferimento, ma si possono azzardare alcune ipotesi, quali rottura delle relazioni diplomatiche, attacco alla Georgia per prendere il controllo del TAP, costruzione della base militare, peraltro già prevista in Libia oppure un attacco, con l’ausilio di truppe iraniane alla base militare USA a Tanf in Siria. Si potrebbe concludere tale dissertazione parlando dell’Europa, ma probabilmente non ne vale la pena: il suo futuro appare analogo a quello dell’Ucraina, che è quello di divenire un deserto.

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