PERCHE' LA MAFIA E' UN ATTORE GEOPOLITICO
DI GIUSEPPE FARINA
Cina, Russia, Stati Uniti: i tre grandi player globali, di cui abbiamo trattato sotto numerosi aspetti in questa sede, rappresentano i protagonisti assoluti della scena politica mondiale e di essi dovremo verosimilmente occuparci ancora in futuro non appena gli incroci della Storia o più banalmente le circostanze contingenti legate agli sviluppi del dibattito e delle dinamiche internazionali lo richiederanno.
Fino ad oggi non si è voluto non soltanto trattare, ma nemmeno concedere un pur vago accenno alle vicende, ormai da considerare oscillanti tra il tragico ed il ridicolo, riguardanti il nostro martoriato Paese: il motivo di tale scelta appare di immediata comprensione e consiste nella assoluta irrilevanza cui l’Italia si è condannata specialmente nell’ultimo ventennio e, se possibile, vieppiù a seguito della folle e politicamente suicida partecipazione delle nostre Forze Armate alla drammatica avventura libica del 2011 foriera, com’era largamente prevedibile da chiunque fosse dotato di un livello minimo di assennatezza, della definitiva derubricazione italiana al rango di vera e propria colonia soggetta al turbinio suscitato dal vortice della geopolitica tanto regionale quanto globale, quantunque, a una riflessione più attenta, non sia possibile non rilevare come la condizione cui è sottoposta l’Italia assuma un carattere tutt’altro che inedito e sconosciuto nella nostra beneamata penisola; nonostante quest’ultima considerazione però, il Belpaese non aveva mai assistito ad un ridimensionamento di simili proporzioni tali non soltanto da pregiudicare qualunque legittima aspirazione del nostro governo a ricoprire un ruolo consono alla storia e al prestigio della compagine statuale ad esso affidata, ma anche da condurre ad una sorta di vero e proprio appiattimento della presenza italiana alle iniziative e talora persino al capriccio delle molteplici entità internazionali alle quali siamo da tempo ormai soggetti, così da sopportare senza neppure il benché minimo trasalimento finanche le decisioni più apertamente nocive per il nostro stesso interesse nazionale. Dunque, in virtù di queste premesse, corre l’obbligo di gettare uno sguardo alle vicende nostrane per poi inserirle nella grande partita globale già descritta e parzialmente decrittata nelle precedenti pubblicazioni.
Per comprendere quindi sia quest’ultima,
sia il ridimensionamento sofferto dall’Italia mai come prima da vent’anni a
questa parte, fra le numerose ragioni su cui occorre porre l’accento in grado
di contribuire a ricostruire le dinamiche del declino nazionale, lo scrivente
vuole appuntare l’attenzione su di un fenomeno talmente popolare da poter di
fatto direttamente utilizzare la parola stessa che lo evoca in un numero
imprecisato e comunque certamente cospicuo di lingue in ogni angolo del
Pianeta, ma del quale la comprensione, persino nel nostro medesimo Paese,
denuncia carenze macroscopiche dovute quasi sempre ad una sua osservazione
epidermica; stiamo parlando del fenomeno della criminalità organizzata, meglio noto
con il termine di mafia: quando l’opinione pubblica pensa a quest’ultima, le
considerazioni salienti riguardano l’esplicazione delle attività illegali
intraprese nonché i giganteschi provenienti finanziari assicurati alle famiglie
malavitose dalla gestione delle stesse,
così da ricondurre surrettiziamente l’esercizio del poderoso potere mafioso
alla disponibilità pressoché illimitata di denaro, congiuntamente con il
ricorso alla coercizione e, laddove necessario, all’impiego di vere e proprie
risorse belliche riverberanti la natura, per così dire, statuale
dell’organizzazione criminale. Tuttavia, la quasi totalità della collettività,
con l’unica significativa eccezione di specifici addetti ai lavori, ignora
l’autentica e più profonda motivazione
della centralità mafiosa tanto nel mondo attuale quanto principalmente
nella storia d’Italia dalla fase conclusiva dell’ultimo conflitto mondiale a
oggi, vale a dire l’aver calato il tessuto delinquenziale di una società
notevolmente arretrata che affondava le proprie radici in dinamiche risalenti
ad epoca preunitaria in una dimensione globale tale da conferirle un eminente
ruolo nella geopolitica mondiale: la mafia inizia, infatti, a rappresentare un
interlocutore indispensabile, in particolare degli USA, quando ancora gli
Alleati erano impegnati a combattere con i Paesi dell’Asse e i contatti,
principalmente promossi all’epoca dall’Intelligence statunitense con una figura
centrale della mafia americana quale quella di Lucky Luciano, si
intensificarono alla vigilia dello sbarco anglo-americano in Sicilia nel 1943
tanto negli Stati Uniti, laddove i capi malavitosi recidono i loro legami con
il gangsterismo di personaggi quali Dillinger, quanto in Italia allorquando nei
preparativi propedeutici alla conquista prima di Palermo e Catania e poi del
resto dell’isola si instaura una sorta di “dialogo naturale” che, come
magnificamente attestato dai fotoreporter al seguito delle Forze Armate USA,
coinvolgerà anche la popolazione locale e in modo particolare i contadini,
preziosi depositari, quest’ultimi, di numerosi segreti relativi all’orografia
della loro terra.
Proprio questo dialogo con il governo
americano durante la guerra costituisce la premessa alla stipulazione di una
vera e propria alleanza geostrategica fra Cosa Nostra e il governo americano
ed, in modo particolare, nella seconda metà del Novecento, con la CIA: tralasciando
in questa sede una ricostruzione degli eventi che hanno contraddistinto il nostro
Paese nel periodo postbellico, dato che essi ci condurrebbero decisamente
lontani, gli Stati Uniti si resero conto di come la mafia rappresentasse una
risorsa dalla quale fosse impensabile prescindere, laddove l’Italia costituisce
una sorta di portaerei protesa nel Mediterraneo e la Sicilia un’autentica
piattaforma naturale da poter utilizzare nella lotta contro i piani di
espansione sovietici sia nell’Europa meridionale, sia in Africa settentrionale;
e la mafia, in quello specifico periodo storico, svolge alla perfezione il
proprio compito mediante un’attiva collaborazione nella cosiddetta Strategia
della Tensione, tramite il supporto alla DC nella conquista del consenso
elettorale e ancora condizionando le scelte politiche di quest’ultima con
l’allora inedita tattica della moltiplicazione incontrollabile del tesseramento
partitico.
La mafia proseguì la propria
interlocuzione di fatto fino alla caduta della Prima Repubblica, ritenendo che
il patto stipulato con gli USA di fatto non venisse mai meno e continuasse ad
assicurare a Cosa Nostra una centralità da cui in Italia non si poteva
prescindere e dalla quale derivava una conseguente protezione necessaria allo
svolgimento delle relative attività criminali, ma i capi mafiosi di fatto coltivavano
soltanto l’illusione di poter intrattenere un dialogo paritario con la
superpotenza americana. In realtà, chi segue questo blog ed i precedenti
articoli dello scrivente (Multilateralismo vs unilateralismo nell’intreccio
globalista) sa che le cose non stanno affatto così e che gli USA, una volta
terminato il boom economico a metà degli anni Sessanta, cominciano a ridefinire
la propria agenda politica tanto all’interno quanto all’esterno del Paese; nel
concreto, in merito alle nuove direttrici che interessano la politica
statunitense nel mondo, si rivelano preziosissimi alcuni dossier desecretati
nel 2008 e redatti al tempo da analisti CIA sulle evoluzioni sovietiche di quel
periodo riassumibili, in base all’opinione prevalente degli storici, in quella
che fu definita la “leadership collettiva” e dei quali riportiamo uno stralcio
significativo: “ . . . non sembra che nessuno degli attuali leader
raggiungerà la statura di Lenin e Stalin, quindi sarà più sicuro presumere che
gli sviluppi a Mosca saranno sulla falsariga di quella che viene chiamata
leadership collettiva, a meno che le politiche occidentali non forzino i
Sovietici a snellire la loro
organizzazione di potere. La situazione attuale è la più favorevole dal punto
di vista dello sconvolgimento della dittatura comunista dalla morte di Stalin .
. .”; ed ancora: “ . . . La lotta tra gli elementi di mentalità
nazionale “titoista” e coloro che pensano in termini di linea internazionale
più ortodossa è ancora in corso . . .” Com’è noto alla fine prevarranno i
fautori della linea nazionalista-titoista e la lettura di questi dossier
forniti dalla CIA suscita, alla luce degli eventi attuali, un enorme interesse:
in base a quanto è possibile apprendere da essi, si evince che lo schieramento
comunista nel mondo è in procinto di entrare in una crisi dalla quale poi, come
la Storia ha dimostrato, esso non uscirà più e fu in primis l’Unione Sovietica
a pagare lo scotto di decisioni che si riveleranno scellerate, allorquando
Mosca in politica estera rompe i propri rapporti con la Cina maoista, dispone
lo scioglimento del COMINFORM, sostituisce la quasi totalità dei dirigenti
comunisti nell’Est Europa, così da legittimare l’avvento al potere di
personaggi quali Gomulka in Polonia, mentre in merito alle politiche interne
della Nazione si avviò un ripensamento della pianificazione centralizzata,
attraverso l’apertura di una logica di decentramento decisionale e una serie di
errati investimenti in ambito industriale e agricolo che identificarono le vere
ragioni della stagnazione economica degli anni Settanta, a sua volta
propedeutica al collasso definitivo dell’economia sovietica nel decennio
successivo; dunque, la consultazione di queste analisi CIA assume una valenza
straordinaria, poiché rivelano come nel governo statunitense stesse
progressivamente subentrando consapevolezza circa il sopravvento del cosiddetto
mondo libero sullo schieramento comunista fino a una sempre più probabile
vittoria definitiva, consapevolezza che traspare in controluce anche dal
malcelato entusiasmo con cui gli autori delle suddette analisi accompagnano la
stesura dei loro rapporti verso Washington.
In siffatto ambito, a partire dalla metà
degli anni Sessanta, il governo statunitense pregusta l’assoggettamento di
quella porzione di Pianeta che ancora sfugge al proprio controllo, mentre alle
sue spalle contestualmente muove, nella penombra della politica, anche il Deep State proteso a delineare
l’impianto dello schema neoliberale cui tutti, Nazioni come singoli individui,
dovranno sottostare in un futuro che appare ormai già in quel momento non più
così remoto; pertanto, in tale situazione e in virtù di queste considerazioni, prende
le mosse la ridefinizione USA delle relazioni con i propri alleati, fra i quali
oggi come allora spiccano Germania e Italia: gli Stati Uniti, nelle circostanze
postbelliche, promossero e sostennero la rinascita di entrambi i Paesi ridotti
in macerie al termine dello sforzo che avevano profuso durante la guerra, ma il
boom economico e la relativa ricostruzione del tessuto industriale, produttivo
e sociale avevano condotto in tempi eccezionalmente rapidi ad un mutato
scenario e quelle che fino a pochi anni prima apparivano alla stregua di
Nazioni vulnerabili, sorrette perlopiù dalle condizioni create dalla precarietà
dei rapporti Est – Ovest, assurgono al rango di rivali temibili dei quali
favorire il drastico ridimensionamento, in modo particolare di quella che, già
prima della Seconda Guerra Mondiale, era stata definita la “Potenza
ingombrante”, vale a dire l’Italia; del resto, a testimonianza di siffatta
evoluzione del contesto geopolitico, fra le numerose argomentazioni che sarebbe
possibile addurre, soccorre l’episodio concernente il repentino problema di
salute occorso, durante lo svolgimento di una visita ufficiale nella Capitale
USA, al principale fautore – nella sua qualità di indiscusso leader
democristiano - di una politica internazionale dell’Italia che rivendicasse una
necessaria autonomia d’azione, ossia all’allora Ministro degli Esteri Aldo
Moro. Lo statista italiano tenne un vertice con il suo omologo statunitense
Henry Kissinger, il quale intimò al governo, di cui il capofila democristiano
era esponente, di correggere drasticamente la politica posta in essere dal
nostro Paese a partire dal decennio precedente fino a quel momento, di fatto in
relazione a ogni ambito di intervento governativo e, quindi, sotto il profilo
politico, con l’apertura a favore del PCI, ma anche dal punto di vista della
crescita economica, industriale e del recuperato protagonismo nella politica
internazionale; a fronte del risoluto diniego opposto a tali autentici
ultimatum da parte americana, Kissinger pronunciò una frase inequivocabile: “I
kill you”. Moro rientrò in Italia dopo aver sofferto un’indisposizione a
seguito di tale summit e quello che accadde di lì a non molto tempo dopo
rappresenta ormai materiale di studio per gli storici.
Com’è intuibile, la mafia ben
difficilmente avrebbe potuto cogliere la portata di quanto stesse avvenendo in
quel periodo a livello mondiale e dunque Cosa Nostra nonché ulteriori
organizzazioni criminali ad essa affini, pur faticosamente captando taluni
segnali che inesorabilmente non potevano non giungere anche nel nostro Paese –
celebre la domanda posta dal boss della nuova camorra organizzata, Raffaele
Cutolo, il quale a seguito della liberazione dell’assessore Cirillo a Napoli,
chiese ad alcuni autorevoli esponenti DC del capoluogo partenopeo come fosse
stato possibile che non avessero liberato il Presidente del proprio partito –
rimase interlocutore privilegiato della CIA in Italia e specificatamente in
Sicilia fino a quando la tela tessuta dagli Stati Uniti nel mondo non giunse a
compimento e l’opinione pubblica mondiale assistette esterrefatta alla caduta
del Muro di Berlino; tuttavia, neppure in quel frangente drammatico della
Storia i capi mafiosi si resero conto di quanto stesse realmente accadendo e di
come con le loro stesse mani si accingessero a distruggere quel potere che
tanto gelosamente avevano custodito per un periodo pluridecennale: la fine del
comunismo significava pure la conclusione di tutti i rapporti costruiti in
funzione di contrasto a quest’ultimo, di qualunque natura essi fossero. Quindi
per l’Italia tutto questo voleva dire anzitutto la rimozione di quella intera
classe politica che già da alcuni decenni Washington aveva tollerato, seppure
con crescente insofferenza, e che in effetti fu completamente spazzata via: in
primo luogo, i socialisti, seppure convolti in un vortice corruttivo oggettivo
di proporzioni gigantesche dovettero soccombere più che alle inchieste
giudiziarie alle conseguenze di una martellante campagna mediatica promossa
dagli organi di informazione; diversa fu la situazione della DC, sebbene il
partito di maggioranza relativa nel Paese per un lunghissimo tempo si trovasse in
una situazione non eccessivamente dissimile da quella del PSI: un numero
decisamente cospicuo di leader democristiani a sua volta rimase impigliato
nella rete delle innumerevoli inchieste giudiziarie dell’epoca e il partito era
certamente provato dall’evolvere degli eventi. Nonostante questo, per la DC non
sarebbe stato impossibile conoscere una ripresa sulla falsariga di quanto più o
meno nello stesso periodo avvenne in Germania, allorquando il Cancelliere
democristiano tedesco Helmut Khol decise di sobbarcarsi per intero l’onere del
processo corruttivo nel proprio partito ritirandosi poi a vita privata; pertanto,
per comprendere appieno quanto stava succedendo nel nostro Paese in quei mesi
nonché il ruolo dirimente ricoperto dalla mafia in quei tragici frangenti, con
ogni probabilità dietro preciso input proveniente da Oltreoceano, occorre
ricordare la frase pronunciata da Vincenzo Parisi in una popolare trasmissione
della televisione nazionale, allorquando l’allora Capo della Polizia di Stato
ebbe a dire: “Le bombe del ’92 stabilizzano, le bombe del ’93 destabilizzano”;
tale espressione all’epoca dal significato criptico denota un contorno ben più
nitido alla luce degli eventi attuali. In particolare, a giudizio di chi
scrive, fu l’attentato di Capaci il vero momento chiave di quella stagione, nel
quale com’è noto scomparvero Falcone con la moglie e la scorta: per quale
motivo Falcone fu ucciso? Non è possibile fornire risposte definitive, ma si
possono elencare alcune considerazioni. In primo luogo, il magistrato antimafia
viveva da tempo a Roma dove aveva assunto l’incarico di responsabile della
Direzione Affari Penali ed era ormai lontano dalla conduzione di inchieste
penali, ma era tornato in Sicilia con uno scopo ben preciso, ossia quello di
incontrare proprio nel capoluogo siculo l’allora Procuratore Generale della
Federazione russa: di quali argomenti i due dovessero discutere non è mai stato
possibile saperlo. Tuttavia, furono a livello nazionale e internazionale le
ripercussioni maggiori: l’efferata strage mafiosa di Capaci sbarra l’accesso al
Quirinale di Andreotti, spalanca le porte della Presidenza della Repubblica a
Scalfaro che come sappiamo rifiutò in seguito di firmare il decreto Conso in
quei giorni denominato dalla stampa nazionale come il cosiddetto “Colpo di
spugna”, trattandosi di un provvedimento legislativo che avrebbe potuto
concedere una via di salvezza a una classe politica completamente sommersa
dagli scandali; inoltre, proprio Andreotti che, in un primo momento sembra
l’ultimo capofila politico a poter scampare dal collasso della Prima Repubblica,
è inchiodato alle proprie responsabilità penali, politiche e storiche dal
processo di Palermo, nonostante l’assoluzione per prescrizione. In poche
parole, la classe politica italiana, che aveva retto il Paese per decenni e
soprattutto, malgrado limiti e corruzione, con capacità di promuovere la tutela
dell’interesse nazionale, sparisce e la nuova epoca può infine iniziare. E i
boss mafiosi? Persuasi di essere protagonisti dello storico cambiamento che
stava verificandosi, i vari Riina, Provenzano, Bagarella ed altri, dopo aver
contribuito in maniera determinante a far scomparire dalla scena politica quei
referenti che avevano assicurato loro per decenni, protezione, impunità e
introiti inimmaginabili all’uomo della strada, coltivarono per un breve periodo
l’illusione di poter proseguire il sodalizio stipulato a suo tempo tanto con la
CIA quanto con la politica nazionale ma non tardarono a rendersi conto di
appartenere loro stessi a quel passato che doveva essere cancellato: per un
curioso paradosso della Storia, anche loro dovevano concludere il percorso
cominciato molto tempo prima e quando iniziarono a rendersi conto di quanto
stesse accadendo risposero nella maniera a loro più naturale, vale a dire con
le bombe del ’93; in quel contesto, matura la trattativa Stato-mafia. Emerge
una nuova classe politica gradita a Washington e in Europa, i boss mafiosi –
contadini sanguinari e rozzi che avevano creduto di poter trattare alla pari
con i potenti della Terra – dopo decenni di latitanza e apparente impossibilità
di giungere alla loro cattura sono improvvisamente, uno dopo l’altro,
assicurati alla giustizia e chiamati a rispondere dei loro crimini, mentre le
bombe del ’93, alle quali anche chi scrive è scampato essendomi trovato
tre-quattro ore prima della deflagrazione a circa una cinquantina di metri dal
luogo dell’esplosione al Laterano a Roma, cessano e nuovi segreti e nuove
strategie devono essere celate: le recenti inchieste legate agli scandali
dell’ex magistrato Palamara e dell’avvocato Amara gettano una nuova, seppure
ancora soltanto parziale, luce a seguito di rivelazioni nelle quali si scopre
come un Presidente Emerito della Repubblica tenesse periodici incontri con una
combriccola di giudici amici suoi allo scopo di decidere gli esiti di processi
e inchieste nonché stabilire chi dovesse fare carriera in magistratura e chi
invece trasferito o anche punito; tutto questo lascia ampiamente intuire cosa
abbia celato e a tutt’oggi celi la trattativa Stato-mafia comprendendo in essa
la definizione di un inedito equilibrio politico in Italia, ma anche la
definizione di un nuovo assetto geopolitico almeno a livello regionale. Nel
mentre, la latitanza di Matteo Messina Denaro prosegue, sebbene circolino con
insistenza voci che vorrebbero i vertici dell’Arma dei Carabinieri a conoscenza
della residenza dell’ultimo importante boss mafioso, ma nonostante questo, l’ultimo
importante boss mafioso rimane a piede libero, verosimilmente perché Denaro
rappresenta il custode di tutti i grandi segreti della Prima e della Seconda
Repubblica e, qualora fosse catturato, quello che potrebbe raccontare
probabilmente non piacerebbe a nessuno; tuttavia, si può ragionevolmente
intuire anche un’altra motivazione più prettamente legata all’analisi delle
problematiche che offriamo su questo blog e che prende il nome di Via della
Seta: il Mediterraneo, dopo decenni di relativa tranquillità, assicurata dallo
spostamento del confronto marittimo Est – Ovest durante la Guerra Fredda
principalmente sugli Oceani del Pianeta, è tornato a identificare il bacino
idrico più importante a livello mondiale, quale luogo di elezione dell’arrivo
delle portacontainer provenienti dalla Cina e conseguentemente costituisce
l’area in cui si gioca la partita determinante relativamente all’esito della
conquista, in un futuro a breve e medio termine, della prossima leadership globale
tra i tre grandi player della geopolitica internazionale: in tutto questo, non
si può, infatti, tralasciare la significativa e crescente presenza russa sia in
Siria, sia in Libia con la possibile previsione di nuove basi militari di Mosca
nell’Africa settentrionale, circostanza quest’ultima che atterrisce il Comando
NATO laddove esso si troverebbe a dover
affrontare un duplice e probabilmente non sostenibile sforzo non più soltanto
nell’area del Mar Baltico o più vagamente a difesa di un imprecisato confine
posto indefinitamente in Europa orientale, ma anche di fronte alle coste
nordafricane, impegnato quindi in una battaglia in grado di sfiancarlo; ma qui
torniamo al punto già precedentemente accennato, ossia al fatto che al centro
di questo grande bacino idrico si trova un’autentica piattaforma naturale,
dalla quale si può dominare il “Mare Nostrum” e forse vincere quella partita di
cui si diceva sopra. Come forse a Washington potrebbe aver già ricordato quei
vecchi amici che a suo tempo li aiutarono nella lotta contro il pericolo
sovietico; e cosa questo voglia dire per la Sicilia nonché per tutta la
politica nazionale è un giudizio che lasciamo a chi ci legge.


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